Ho conosciuto il poeta Carlo Betocchi, non essendo tra i più celebrati dall’immaginario collettivo letterario, grazie a don Luigi Giussani, diversi anni fa.
E’ stato “amore a prima vista”. Mi colpì da subito, senza peraltro saperlo, la familiarità della parola semplice che compone la trama dei suoi versi, senza olezzi e senza strizzate d’occhio per intesa.


Nel panorama della poesia del nostro Novecento (il “secolo breve” secondo l’iconica espressione dello storico Eric Hobsbawn), molti autori hanno rappresentato un sentire, un corso di animo umano, a volte più popolari e di lettura immediata. Carlo Betocchi è da iscriversi tra essi.
Innanzitutto egli è stato, per storia e per circostanze quindi, un uomo dedito al lavoro in tutta la prima parte della sua vita; studi da agrimensore, fino alla soglia dei quarant’anni e geometra in edilizia. Ha maturato la sua personalità nella routine del lavoro tecnico e a contatto con la terra, con le pietre e con i mattoni e con tutti i lavoratori che ha conosciuto.

Poi ha iniziato ad insegnare materie letterarie in alcune accademie musicali, avendosi guadagnato questo diritto sul campo più che per titoli.
La sua poesia sicuramente si inserisce nel solco della tradizione italica, concepita culturalmente in un ambiente letterario di enorme ricchezza; egli è considerato partecipe alla corrente dell’Ermetismo, della quale fu legante di rapporti per tutti gli altri poeti (si pensi alla grande amicizia che lo stringeva a Mario Luzi); eppure in questo contesto si pone con una originale scrittura.


Lo lasciamo dire a lui:

Messa piana

Quando vado alla messa spesso non prego,
guardo. Sono come un bambino. Guardo,
e credo. E il Signore mi dice
(con povere fiammelle di candela,
mutamente entro me, nel mio guardare),
– Bravo, hai fatto bene a venire. –
E al segreto consenso la coscienza
s’indebita, riconoscente. E mormora:
– Basta, così sian tutti, tutti
oramai, con me. Anche quei pochi
cui ho fatto del bene. E solo mi lascino,
taciti, solo nel mio guardare –

Betocchi è un uomo che guarda ad occhi ben aperti e con il cuore aperto dei bimbi. Guarda e contempla un mistero farsi davanti ad esso. Un mistero che chiamava per nome e dal quale si sente interpellato e che guarda in volto e al quale ogni cosa richiama.

Betocchi è quindi l’uomo autenticamente religioso che per entrare in rapporto con il tutto ed il divino che in esso si cela, il segreto che segna tutte le sue liriche, guarda all’umano che c’è; senza spiritualismi innaturali.

Così rintracciamo in questi versi prossimi:

Un passo, un altro passo

Ma anche imparo,
giorno per giorno imparo, che non c’è cosa in cui sia necessario
più il credere che l’operare; e che tra il fiore
del credere che amo, e il mio esserne degno,
che è il prezzo del mio esistere,
c’è di mezzo quello che ho fatto,
il mio consistere in opere e lavoro:
e ch’ivi è il tutto, tutto ciò che io posso
saper di vero, anche se avvolto nel mistero
della cosa fatta dall’uomo, e che dall’uomo
prega per il di più che non può fare,
e i doni per cui fece, alti, ringrazia.

Il credere, inteso come aspirazione a Dio, come commossa osservazione della realtà (così intensa, che accade), è dentro, unito, all’agire dell’uomo. Agire umile, non superbo; agire voluto, non subìto; agire limitato, riconoscente, pur necessario però per il cammino al vero che si offre per grazia. Grazia e umanità, senza dicotomie per la grande avventura di ogni cuore.
Di cosa è frutto tutto ciò, da quale coscienza nasce la poetica di Carlo Betocchi?
La terza poesia che proponiamo è un omaggio molto personale a questo uomo semplice e geniale.
Se quello stesso sguardo aperto sul mondo, lo sguardo della ragione ed insieme del sentimento, si posasse su se stessi, un uomo semplice appunto, che cosa vedrebbe?

Proviamo ad immedesimarci nella lettura dei suoi versi:

Ciò che occorre è un uomo

Ciò che occorre è un uomo
Ciò che occorre è un uomo
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose
ciò che occorre è un uomo
un passo sicuro e tanto salda
la mano che porge, che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi e salvarsi.

Guardare, commossi, se stessi, nel fondo dell’abisso che siamo. Abisso di niente e di domande.
Guardare e scorgere però che in quell’abisso si alza irriducibile un grido ed irriducibile una mano tesa a cercare un’altra mano. Una mano salda.
La parola semplice è in questa poesia, quella che tenta di dire di se. E della mano salda.

Giuseppe Bianchini

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