Introduzione
Negli ultimi mesi è diventato tristemente familiare il nome scelto dall’attuale governo israeliano per la conquista di Gaza: “Operazione Carri di Gedeone”. Perché questo nome? Il riferimento è a uno dei giudici di cui si narra nell’omonimo libro biblico, Gedeone, mandato da Dio a liberare il suo popolo dalle razzie dei Madianiti. «Ogni volta che Israele aveva seminato, i Madianiti con i figli di Amalèk e i figli dell’oriente venivano contro di lui, si accampavano sul territorio degli Israeliti, distruggevano tutti i prodotti della terra fino alle vicinanze di Gaza e non lasciavano in Israele mezzi di sussistenza: né pecore né buoi né asini» (Gdc 6,3-4).
Gedeone riuscì a terrorizzare e sbaragliare i nemici con solo un piccolo gruppo di soldati (300), armati di torce e vasi di coccio. L’idea di fondo è chiara: se Dio combatte con noi, non sono necessari grandi mezzi umani. Non ci soffermiamo qui a disquisire sulla pertinenza del nome dato all’operazione militare israeliana, che peraltro può contare su mezzi militari tutt’altro che scarsi (ognuno tragga le proprie conclusioni). Ci concentriamo piuttosto sul personaggio di Gedeone.
La chiamata di Gedeone
Con Debora (e con Giaele) termina il tempo dei giudici fedeli a Dio fino in fondo (anche se, in realtà, già con Barak avevamo avuto un esempio di scetticismo e mediocrità). La parabola di Gedeone apre quella che sarà una serie di personaggi dal comportamento esecrabile. E qui occorre spendere una parola sullo stile del libro dei Giudici che, lungi dal proporre esempi edificanti, offre al lettore gli strumenti letterari e morali per pesare il cuore di coloro che Dio chiama a liberare il suo popolo. Il racconto suscita indignazione e finanche rabbia. Chiunque legga la vocazione di Gedeone resta perlomeno perplesso di fronte alla sua reticenza.
Si parte male fin dal principio. A Gedeone appare nientemeno che l’angelo del Signore – non uno qualsiasi! – e si rivolge a lui con parole lusinghiere: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!» La risposta di Gedeone suona come una provocazione: «Perdona, mio signore: se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato? Ora il Signore ci ha abbandonato e ci ha consegnato nelle mani di Madian» (cf. Gdc 6,11-13).
Per sottolineare la sproporzione tra chiamata e risposta, il narratore fa parlare direttamente il Signore che ordina: «Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?»
Ma Gedeone non è per nulla convinto e inizia a cercare scuse: «Come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre».
Dio è paziente e accetta di lasciarsi mettere alla prova, concedendo a Gedeone una serie di segni che appaiono addirittura eccessivi.
Dalla vittoria al delirio di onnipotenza
Finalmente convinto – o quasi – il giudice raduna un esercito per combattere i Madianiti, ma Dio vuole che sia chiaro che la vittoria verrà da Lui, non dalla forza umana. Così riduce le truppe di Gedeone da 30.000 a soli 300 uomini. Con una strategia inusuale, Gedeone divide i 300 in tre gruppi, armati non di spade ma di trombe, anfore e torce. Di notte circondano l’accampamento nemico: al segnale di Gedeone, rompono le anfore, suonano le trombe e gridano. I Madianiti, presi dal panico – che il Signore amplifica con la sua potenza – si uccidono tra loro e si disperdono.
A questo punto Gedeone inizia a prendere coscienza delle proprie oggettive doti di condottiero e non si accontenta di aver liberato il popolo: decide di infierire non solo contro i capi dei nemici in fuga, ma anche contro due città israelite che si erano rifiutate di aiutarlo. È evidente una svolta drammatica: Gedeone non si ritira, ma agisce per vendetta personale. L’eroe carismatico, celebrato come liberatore, cede a una violenza che svuota di senso il successo della sua missione.
Il testo sottolinea poi anche un ulteriore tradimento, ancora più profondo. Prima di guidarlo nell’azione militare, Dio ordina a Gedeone di distruggere «l’altare di Baal» e di tagliare «il palo sacro che gli sta accanto» (Gdc 6,25), simboli dell’idolatria che aveva portato Israele lontano dal Signore. Gedeone, timoroso della reazione del popolo, esegue l’ordine, ma di notte. Il mattino successivo deve intervenire suo padre per difenderlo dalla folla inferocita: «“Se Baal è davvero un dio, difenda da sé la sua causa, per il fatto che hanno demolito il suo altare”. Perciò in quel giorno Gedeone fu chiamato Ierub-Baal, perché si disse: “Baal difenda la sua causa contro di lui, perché egli ha demolito il suo altare” (Gdc 6,31-32).
Il ritorno all’idolatria
Gedeone diventa così un punto di riferimento non solo militare, ma anche religioso. Tuttavia, il suo delirio di onnipotenza lo porterà a tradire anche questa missione. Dopo la vittoria chiede ai capi militari di dargli ciascuno un anello d’oro, prendendolo dal bottino di guerra: «Egli stese allora il mantello e ognuno vi gettò un anello del suo bottino. Il peso degli anelli d’oro, che egli aveva chiesto, fu di millesettecento sicli d’oro […] Gedeone ne fece un efod che pose a Ofra, sua città; tutto Israele vi si prostituì, e ciò divenne una causa di rovina per Gedeone e per la sua casa» (Gdc 8,26-27).
Originariamente, l’efod era una specie di pettorale riccamente decorato, con pietre preziose, portato sopra la tunica, usato per il culto e per consultare Dio. Qui, invece, probabilmente indica un oggetto di culto ambiguo, forse nato come memoriale del trionfo militare, ma poi degenerato in idolo vero e proprio. Quindi, siamo da capo.
Per riflettere…
Tutti possiamo cadere nella tentazione di considerare i doni che riceviamo da Dio come nostre qualità e nostre proprietà, e agire quindi di conseguenza, per averne un tornaconto. Questo avviene di pari passo con l’interruzione di una relazione profonda con Lui.
Su questa tentazione Gesù mette in guardia anche gli apostoli: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me».
Restare in Lui è l’unica via per poter portare frutti buoni e autentici.
Patrizio Righero