Per addentrarci nel mondo della speranza paolina, dobbiamo partire dal suo primo scritto, che è anche il più antico del Nuovo Testamento, databile tra il 50 e il 51 d.C.: la prima Lettera ai Tessalonicesi.

Fede, carità, speranza

Nell’arco dei suoi cinque capitoli troviamo già in luce il tema della speranza che egli abbondantemente svilupperà nelle sue lettere successive. Dopo una fruttuosa predicazione a Tessalonica, Paolo ha dovuto lasciare la città in modo brusco, continuando così la sua missione ad Atene e a Corinto, non senza la sofferenza di essere stato privato della presenza dei tessalonicesi e nutrendo un’ardente speranza e un vivo desiderio di rivedere presto il loro volto (cf. 2,19).

Al di là di questo riferimento alla speranza umana dell’Apostolo (avendo desiderato di avere presto un nuovo incontro con i suoi interlocutori) in 1Ts troviamo quattro volte il sostantivo “speranza” (elpìs, in greco). Nell’esordio dello scritto, egli comunica che nella preghiera di ringraziamento ha sempre presente “l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore” (1,3).

È una triade tipicamente paolina, che ricorre spesso nei suoi scritti, ma che qui ha come punto di arrivo proprio la speranza, ultima nell’ordine delle parole. Insieme alla fede operosa e all’amore faticoso, egli sottolinea, infatti, i credenti sono caratterizzati da una speranza perseverante e, come dice in 2,19, sono essi “la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui vantarci davanti al Signore nostro Gesù”.

L’armatura dei credenti

L’Apostolo immagina che nel giorno della venuta del Signore egli potrà farsi fregio della gioia e della speranza dei Tessalonicesi, frutto della loro adesione al messaggio del Vangelo di cui egli è stato annunciatore. Un’ulteriore metafora la troviamo alla fine della lettera, quando egli descrive l’armatura dei credenti…

… “vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza” (5,8).

La speranza è vista come l’elmo che difende la parte più significativa da cui dipende la vita o la morte del soldato. Non si tratta di qualcosa da attendere solo nel futuro. La speranza è “della salvezza”, cioè salvifica, fondata solidamente sulla redenzione operata dal Cristo nel mistero pasquale e tendente verso il pieno possesso della salvezza nel giorno della sua venuta.

Ed è proprio nel cuore della lettera che Paolo espone quali siano le conseguenze di questa speranza salvifica. Davanti alle domande dei suoi interlocutori circa l’incontro finale con il Signore e la sorte di coloro che sono “dormienti”, cioè i defunti, egli esorta i tessalonicesi a non essere “tristi come gli altri che non hanno speranza”(4,13).

Scrive il Papa in Spes non confundit, 1:

“Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé.”

Speranza pagana e cristiana

Se, però, la speranza è la caratteristica comune di ogni essere umano, la speranza del credente è la certezza che con il Signore nulla è perduto, nemmeno la vita di coloro che sono già morti.

I pagani, i non credenti “non hanno speranza” nel senso che la loro speranza umana è fondata su contenuti diversi rispetto alla fede dei credenti, siano essi il culto imperiale o la venerazione di qualche divinità, come avveniva a Tessalonica. Ma alla fine essi rimarranno delusi.

Solo la speranza dei credenti, quella posta nel Cristo e nella salvezza che egli ci ha donato con la sua morte e risurrezione, è saldamente fondata sulla certezza che non siamo destinati al vuoto, ma nel giorno della sua venuta noi andremo “incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (4,17).

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Don Fabio Villani

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