La profezia di Debora

Nel cuore degli eventi che vedono protagonista Debora, profetessa e giudice, c’è un’altra donna il cui intervento risulta determinante per la liberazione di Israele dall’oppressione dei cananei.

Si tratta di Giaele, moglie di Cheber. Quest’ultimo, racconta il libro dei giudici, è un “kenita”, cioè appartenente ad una tribù che fa risalire le proprie origini a Caino. Ma si specifica che «si era separato dai Keniti, discendenti di Obab, suocero di Mosè, e aveva piantato le tende alla Quercia di Saannàim, che è presso Kedes» (Gdc 4,11). Kedes non è un luogo qualunque bensì il quartier generale di Debora e del generale Barak che qui convoca «Zàbulon e Nèftali» radunando un esercito di diecimila uomini pronti a dare battaglia contro il temuto esercito di Sisara.
Il libro dei Giudici puntualizza anche un altro particolare: «vi era pace fra Iabin, re di Asor, e la casa di Cheber il kenita» (Gdc 4,17). Un’alleanza di comodo, evidentemente, per evitare scontri e rappresaglie. La puntualizzazione risulta, però, preziosa per la dinamica del racconto.

E qui facciamo un passo indietro. La battaglia combattuta ai piedi del monte Tabor, contro ogni pronostico, è vinta dagli israeliti, grazie all’intervento del Signore. Questa interpretazione teologica viene esplicitata in forma poetica nel “Cantico di Debora”:

«Dal cielo le stelle diedero battaglia,
dalle loro orbite combatterono contro Sìsara.
Il torrente Kison li travolse;
torrente impetuoso fu il torrente Kison
».
(Gdc 5,21-21)

Il generale Sìsara, vista la disfatta del suo esercito, scende dal carro e fugge a piedi verso la tenda di Cheber, che suppone essere un rifugio sicuro. Qui entra in scena Giaele il cui intervento era già stato profetizzato da Debora, in risposta alle resistenze e soprattutto alla poca fede di Barak: «verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini, perché il Signore consegnerà Sìsara nelle mani di una donna» (Gdc 4,9).

Il gesto cruento di Giaele

Il racconto dell’assassinio di Sisara è un gioiello narrativo che riporto integralmente.

Giaele uscì incontro a Sìsara e gli disse: “Férmati, mio signore, férmati da me: non temere”. Egli entrò da lei nella sua tenda ed ella lo nascose con una coperta. Egli le disse: “Dammi da bere un po’ d’acqua, perché ho sete”. Ella aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì. Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a interrogarti dicendo: ‘c’è qui un uomo?’ Dirai: nessuno. Allora Giaele, moglie di Cheber, prese un picchetto della tenda, impugnò il martello, venne pian piano accanto a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare in terra.
Egli era profondamente addormentato e sfinito; così morì. Ed ecco sopraggiungere Barak, che inseguiva Sìsara; Giaele gli uscì incontro e gli disse: “Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi”. Egli entrò da lei ed ecco Sìsara era steso morto, con il picchetto nella tempia».

Gdc 4,18-22

Giaele e SisaraArtemisia Gentileschi – Wikimedia

La valenza salvifica

Il gesto di Giaele ci fa rabbrividire: è un omicidio a sangue freddo, violento, descritto nei minimi dettagli. Una scena splatter degna di un film horror.

Come se non bastasse, nel Cantico di Debora troviamo un ulteriore elemento tragico:

«Dietro la finestra si affaccia e si lamenta
la madre di Sìsara, dietro le grate:
“Perché il suo carro tarda ad arrivare?
Perché così a rilento procedono i suoi carri?
”».
Gdc 5,28

Proprio come nelle tragedie greche, gli risponde il coro delle «più sagge tra le sue principesse», cui si unisce la madre stessa cercando di dare, illudendosi, un’interpretazione positiva di quel ritardo:

«Certo han trovato bottino, stan facendo le parti:
una fanciulla, due fanciulle per ogni uomo;
un bottino di vesti variopinte per Sìsara,
un bottino di vesti variopinte a ricamo;
una veste variopinta a due ricami
è il bottino per il mio collo
».
Gdc 5,30

Il quadro è chiaro: in caso di vittoria, Sisara avrebbe rapito le figlie e saccheggiato i beni degli israeliti. Per questo l’omicidio compiuto da Giaele assume una valenza salvifica:

«Sia benedetta fra le donne Giaele,
la moglie di Cheber il Kenita,
benedetta fra le donne della tenda!
».
Gdc 5,24

Giaele e Maria

Nel corso dei secoli la teologia e l’omiletica cristiana hanno accostato Giaele a Maria «benedetta fra le donne» (Lc 1,42), vedendo addirittura nel martello e nel piolo usati per uccidere Sisara una prefigurazione allegorica della croce sulla quale Gesù sconfigge il maligno e la morte.
Sia Giaele che Maria sono figure umili e improbabili che si mettono a servizio di Dio divenendo strumenti di salvezza per Israele (la prima) e per tutti gli uomini (la seconda).
In conclusione propongo un semplice esercizio biblico: rileggere il Magnificat mettendolo prima sulle labbra di Giaele e poi su quelle di Maria:

L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili
,
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre.

Patrizio Righero

Clicca qui per leggere la puntata su Debora.

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