L’inizio del capitolo quinto della Lettera ai Romani è sicuramente il testo paolino più significativo sulla speranza cristiana. Per questo alcune delle sue parole hanno meritato, a buon diritto, di essere poste come incipit (e quindi come titolo) della Bolla papale di indizione del Giubileo che stiamo celebrando. Ci troviamo nel secondo blocco della parte dottrinale di Rm. Dopo aver argomentato sulla giustificazione per la fede, l’Apostolo ci presenta la nuova vita in Cristo con tutte le sue conseguenze. Nello stretto giro di cinque versetti, ben tre volte ricorre la terminologia della speranza.
Innanzitutto i vv. 1-2 fanno entrare in gioco le tre dimensioni che caratterizzano l’esistenza del credente: il passato (“giustificati per fede”), il presente (“noi siamo in pace con Dio”) e il futuro che ha a che fare con la speranza.
Se il lessico della giustificazione deriva dal contesto forense, quello della pace deriva dai rapporti interpersonali. Quest’ultimo stabilisce la dimensione di una relazione, di una comunione tra due persone (nel nostro caso, tra noi e Dio, attraverso Cristo). Paolo aggiunge che, per mezzo del Cristo “abbiamo anche l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio”.
È la prima volta nella Lettera in cui si parla della speranza riferita al cristiano. Per il credente la speranza non è una tensione inquieta verso qualcosa di nebuloso, ma la certa attesa di qualcosa che è sicuro, in cui siamo “saldi”: la “gloria”, cioè il pieno possesso della relazione con Dio, la partecipazione alla sua gloria divina. In questo senso il futuro è già divenuto realtà, è già in qualche modo presente, è un dono anticipato di quanto sarà pieno solo nella condivisione della gloria di Dio. Il cristiano, salvato dall’opera del Cristo e riappacificato con Dio, vive nella certa speranza di un compimento che senza dubbio si realizzerà.
Da buon argomentatore, al v. 3, Paolo si auto-pone una obiezione: e le sofferenze? Eh già, perché ci sono situazioni che potrebbero smentire questa speranza certa che non delude. Paolo utilizza il termine “thlìpsis”, traducibile con tribolazione, angoscia, pena, afflizione. Nel contesto delle lettere paoline esso non indica tanto sofferenze fisiche (come malattie ecc.), quanto piuttosto quelle avversità che provengono dall’azione apostolica e che sono una conseguenza dell’annuncio della salvezza. Con una gradatio (una scala, una catena di elementi), efficace dal punto di vista retorico, egli enumera i rapporti di causa-effetto tra diverse realtà.
Dalla tribolazione alla fermezza, alla virtù provata, alla speranza. Come in ogni gradatio, i due termini estremi sono i più importanti, per noi quindi tribolazione e speranza. È una specie di ossimoro che esprime l’idea che sta a cuore a Paolo: non possiamo permetterci che la tribolazione soffochi la speranza. Essa infatti, la tribolazione, fa nascere la fermezza (hypomonè), la sopportazione perseverante. Da quest’ultima scaturisce la “virtù provata” cioè qualcosa che è stato testato, che è passato al vaglio della prova.
Da ciò deriva la speranza che non solo permette di guardare oltre le sofferenze, ma che cresce e matura nell’esperienza delle sofferenze stesse. La speranza non si spegne, ma si rafforza proprio in queste circostanze avverse che non sono una smentita della speranza.
Lo spiega bene il v. 5, andando alla radice profonda di questa tensione speranzosa del cristiano. Afferma Paolo: “la speranza non delude”. Siamo al cuore del nostro tema!
È un tema frequente nei Salmi: “i nostri padri, sperando in te non rimasero delusi” (22,6); “chiunque spera in te non resta deluso” (25,3) e ancora “in te Signore mi sono rifugiato, mai sarò deluso” (31,1).
Fondata sulla giustificazione, la speranza cristiana ha la sua dimensione di saldezza, di incrollabilità. Seguendo quella speranza certa non si vive nella vergogna, nel disonore, ma nel vanto, cioè nell’andare a fronte alta, certi di poterci appoggiare su un basamento che non crolla e quindi non delude: la speranza che deriva dalla giustizia salvifica di Dio.
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Don Fabio Villani