Ogni anno, celebrando la Passione del Signore nel Venerdì Santo, la liturgia della parola ci pone in ascolto del profeta Isaia (Is 52,13-53,12). Il suo quarto canto del servo del Signore squarcia il tempo e lo spazio, e ferma la nostra contemplazione su una dimensione di novità data dallo stesso Gesù, l’uomo dei dolori. Novità di stupore e meraviglia generata da un volto sfigurato davanti al quale si tace. Tacciono le nazioni e i loro re, tace l’agnello condotto al macello, la pecora muta di fronte ai tosatori non apre la bocca.

Nel silenzio – che ricorda quello primordiale della creazione, quando l’Onnipotente separò le tenebre dalla luce – si rivela un fatto nuovo, davanti al quale gli uomini sanno solo schivare il colpo e cedere alla tentazione di volgere lo sguardo altrove.

Solo il silenzio, infatti, riecheggia la potente Parola non detta, ma fatta carne, che attrae l’ascolto dei cuori umiliati. Si tace per paura, davanti all’obbrobrio che sfigura a tal punto, da rendere inumano il volto sfigurato, senza bellezza o splendore di piacere, motivo solo di disprezzo e rifiuto.

Quanti mali sfigurano i corpi esteriormente: la malattia, la guerra, la violenza, l’abuso. Altri mali deformano dal di dentro: la ricerca smodata della perfezione della bellezza fisica, la cura eccessiva dell’aspetto, l’accettazione di sé stessi affidata ad un’immagine standard, un modello di riferimento che, talvolta, ferisce l’equilibrio interiore e sfregia lo splendore di tanti volti, scacciando di fatto la vera bellezza e togliendo la luce dagli occhi.

Gesù conosce la Bellezza primigenia della nostra creazione, il volto dell’amore nato specchiandosi nell’Amore, per questo non rifiuta il male “originale” che ci sfigura e ne fa il suo volto, perché possiamo guardarlo. Egli, Dio Trinitario, comunione per eccellenza, non può perdere il suo contatto vitale con l’opera delle sue mani, non può vivere la separazione, perché sa che il distacco è la causa della nostra sofferenza.

Così, il disprezzato apprezza il nostro peccato, gli conferisce un valore ultimo, scrivendone tutto l’orrore sul proprio volto sfigurato, fino ad essere scandalo, obbrobrio inguardabile. Lui, “il più bello tra i figli dell’uomo, sulle cui labbra e diffusa la grazia” (Sal 44,3), si fa orribile e muto. Riconosce del peccato l’orrenda trappola tesa alla sua creatura e lo valuta secondo una moneta nuova: il suo amore di dono. Il Dio fatto servo paga quel prezzo, proprio lui che gli uomini non stimano, non valutano. Il reietto determina ciò che il Padre estimerà in ciascuno di noi, perché in ogni volto sfigurato riconoscerà il suo Figlio.

Giudicato castigato con ingiusta sentenza, il servo veste l’indifferenza degli uomini, spogliandosi delle stesse sembianze umane. Davanti all’ingiustizia non cade nella vendetta violenta, ma si prostra per rialzare i colpevoli atterriti dall’iniquità.

Solo chi giunge fino al fondo può incontrare l’aspetto aperto dell’empietà, facendosi specchio di una caduta rovinosa che da sempre ingoia ogni uomo. Perché la tirannide non sta mai lontana di casa. La si vede nei potenti di turno che regolano i fragili equilibri del mondo, la si respira nelle relazioni quotidiane, ogni volta che rinunciamo alla cura di chi e di cosa ci sta intorno.

Paradossalmente, dopo esserci investiti di freddo egoistico distacco, in un orizzonte che mette a fuoco solo noi stessi e nel quale gli altri diventano ostacoli, cadiamo nel giudizio iniquo delle vittime del nostro disinteresse.

La soluzione dell’eliminazione è sempre la più rapida per tutti. Isaia ci ricorda che “fu tolto di mezzo… eliminato dalla terra dei viventi” è la stessa dinamica che abita ancora i nostri cuori, nel tentativo di salvare noi stessi da ciò che ci interpella e a cui non sappiamo rispondere. Eppure, proprio Colui che si prostra con dolore è capace di far bottino dei potenti, perché facendosi nulla, occupando lo spazio della non-vita, ruba a noi la nostra onnipotenza.

La Chiesa in quest’anno giubilare ci invita a riflettere sulla speranza, facendoci pellegrini di questa virtù teologale che è dono luminoso nel battesimo. Contemplando il servo sofferente narrato da Isaia, custodendo nel cuore le immagini del suo volto sfigurato e muto, verrebbe da chiedersi: dove dimora la speranza, dove possiamo andare a cercarla?

Essa abita tra i suoni del silenzio che solo chi obbedisce per davvero sa percepire. La Parola del Venerdì Santo ci rivela di Gesù che “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

L’obbedienza vera è frutto di ascolto, di un’adesione piena della volontà ad una visione più grande di quella personale e semplicemente umana. Non si tratta di sottomissione, ma di una fermezza che desidera profondamente ciò che fa, perché capace di scorgere un bene più grande e duraturo, i cui frutti maturano per tanti verso l’eternità.

Isaia ci assicura che il servo del Signore offrirà un sacrificio di riparazione: l’innocente, intercessore per i colpevoli, si offre e genera vita in una terra di morte. Egli non sarà esente dal vivere pienamente il suo intimo tormento, così come non promette a nessuno di noi la possibilità di scansare o evitare il buio della sofferenza. Nei giorni della sua vita terrena, in ogni sua parola, Cristo, la Verità, non ha mai nascosto ai suoi lo scandalo della croce, anzi, ha invitato a prenderla per non perdere Vita.

La strada della croce sfocia in una speranza certa, che Isaia regala nelle luci fioche del Venerdì di Passione: “dopo il tormento si sazierà della conoscenza della luce”. Che cos’è conoscere la luce, se non giungere a quella percezione di luminosità dopo tanto vagare nelle tenebre? È lo squarcio all’orizzonte in un mattino di primavera, quando la luce si impone sulla linea nera della notte. È lo stupore di una risposta che giunge lieta dopo tanto cercare, e tanto vagare in sentieri tortuosi di sfiducia e dubbio. È il sorriso che sa sciogliere i volti tristi e disorientati, ripiegati da vite vuote di senso, che spegne la piaga della solitudine.

È sapere che in ogni nostra croce avremo sempre una mano forata dall’Amore, che verrà a tenere stretta la nostra mano nell’ora della prova.

È la certezza non del dove, o del perché, ma del “come” attraversare l’agonia, imparando dal Crocifisso, servo fedele e buono che ha chiuso gli occhi alla luce di questo mondo, come tutti i mortali da lui creati. Quegli occhi che ha riaperto a quella stessa luce terrestre, ma nel suo corpo glorioso, piagato e risorto. I suoi occhi nuovi, aperti ancora sul mondo, hanno potuto portare per sempre il riflesso dipinto negli occhi di ogni volto, anche il più sfigurato. Sempre di nuovo il Dio da Dio, luce da luce, riapre e continua a condurre tutti verso quella Luce che ci attende e di cui ci sazieremo e conosceremo per l’Eterno.

Hanno preso tutto. Ma Egli resta il sangue scarlatto.

Hanno preso tutto. Ma Egli resta la piaga che folgora!

Dio è nascosto. Ma Egli resta l’uomo dei dolori.

Dio è nascosto. Egli resta il fratello che piange!

Per la tua umiliazione, Signore, per la tua vergogna,

abbi pietà dei vinti, del debole che il forte calpesta!

(Paul Claudel, Le Chemin de la Croix, X)

Maria Rita Cordeschi, Suore del Getsemani

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