1Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
2Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
3sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
4Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo. (Isaia 62, 1-4)

Così recita un bellissimo e celebre passo del profeta Isaia in cui il Signore esprime il suo amore per Gerusalemme, le dà “un nome nuovo” e “uno sposo”. Di cosa parla il profeta? O meglio, di chi? Cosa sta profetizzando Isaia? Egli sta evidentemente parlando del Messia, lo sposo di Gerusalemme e del popolo di Israele, che li richiamerà dalle nazioni e per cui non saranno più abbandonati e la loro terra devastata. Dio promette di sposarsi con il suo popolo e tale sposalizio si realizzerà nella Chiesa.
Un amore per il suo popolo Gesù stesso lo esprime quando dice “quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini” (Mt 23, 37). Come può egli essere “sposo” del suo popolo e della sua città, Gerusalemme?
Biblicamente, l’amore, specialmente quello di Dio, è viscerale, talmente profondo da essere accostato
a quello tra due amanti. Questo avviene ad esempio nel Cantico dei Cantici, dove si scrive:

7Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo. (Ct 8, 7)

Infatti, quel che poi accadrà in Maria è esattamente questo: lei che chiese all’angelo “come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” (Lc 1, 34), conoscerà Dio attraverso lo Spirito Santo. “Conoscere”, spiega in nota la Bibbia di Gerusalemme, significa “avere rapporti coniugali”: ecco come nel mondo semitico, di cui fa parte il popolo ebraico per lingua e cultura, viene inteso l’amore di Dio. Esso è “viscerale” non in senso esclusivamente figurato, ma pieno e concreto, carnale. Scrive ancora Isaia:

4Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo, do uomini al tuo posto
e nazioni in cambio della tua vita. (Is 43, 4)

Nella vita di tutti i battezzati l’amore viscerale che lo sposo nutre per noi si rivela nella vocazione che, appunto nel battesimo, ciascuno riceve. La vocazione è il modo in cui Dio ci chiama a vivere insieme a lui e, nella maggior parte dei casi, le vocazioni sono ampie e di stampo laicale: il Signore può chiamare a fare un certo tipo di lavoro o impegnarsi in una certa missione, per esempio. Non è affatto sbagliato dire che si ha una “vocazione” per il canto o per la musica, per la scrittura o un certo lavoro manuale, come lavorare il legno.
In effetti, san Giuseppe, sposo di Maria, aveva proprio quest’ultima vocazione: era un eccellente artigiano e tramite il suo lavoro guadagnò da vivere alla sua sposa e a Gesù. La figura di san Giuseppe, tuttavia, è chiave d’ingresso a quell’ambito della vita che più propriamente si chiama vocazione. Egli è “modello e prototipo della vita consacrata” secondo Natalino Valentini e Ferdinando Campana1.
Tutti i battezzati sono dei consacrati a Cristo e tale consacrazione si esplica nel matrimonio per alcuni, nei consigli evangelici (quelli che prima venivano chiamati “voti”) e la vita religiosa per altri, e infine nel sacramento dell’ordine (il sacerdozio o, più propriamente, presbiterato) per altri ancora. Sono questi tre i modi principali in cui Cristo ci ama e ci chiama a sé. Lo sposo, infatti, anche nella vita matrimoniale, è sempre Cristo prima ancora che il marito o la moglie.

Questo è il motivo per cui tanti matrimoni, dopo anni e con figli al seguito, vanno in pezzi: perché ci si dimentica, o non si è mai stati consapevoli e non si è mai vissuto questo: che lo sposo è anzitutto Cristo, non il proprio coniuge. L’esempio di tutti gli esempi in questo caso è la madre di sant’Agostino, santa Monica, che con la forza della preghiera e della sua presenza convertì suo marito e suo figlio e fu causa della santificazione in modo particolare di quest’ultimo.
La chiamata di Dio è alta e difficile da raggiungere per l’uomo, così piccolo, gracile e peccatore. Qual è la via che il Signore traccia e ci consente di stare al passo? Non è sicuramente sforzandoci che riusciremo a stare al passo di Dio. Solo abbracciando il suo amore è possibile, e per farlo bisogna prima abbracciare Giobbe e il Qoèlet, testi biblici al cui centro si trovano il mistero della sofferenza e della vanità del mondo.
Non ha importanza quanto possiamo essere buoni e bravi, i nostri progetti sinceri, benefici e altruisti: tutto è soggetto al fallimento, al decadimento e al nulla. Noi non siamo niente, le nostre azioni e le nostre scelte non sono niente se non c’è Cristo. Stare al passo di Dio significa abbracciare la morte nella speranza della risurrezione: abbracciare il nostro nulla, il nostro essere un fallimento, il vuoto che è sostanza e contorno di tutte le cose che siamo, che facciamo e cui teniamo.
Questo è particolarmente vero al giorno d’oggi, perché noi figli della modernità tendiamo molto a mettere tante “cose” al posto di Dio. Il denaro, lo sport, il potere, lo svago e il divertimento: tutto ciò che ci dà un piacere immediato per noi è bene, il resto è male.
Vedo un cellulare che sento l’impulso di acquistare? Lo compro, anche se quello che ho è nuovo e questo lo dovrò pagare a rate perché non ho soldi. C’è un’offerta su questo nuovo orologio? Lo prendo, anche se un orologio ce l’ho già. Questo mio amico non mi dà più soddisfazione, non lo capisco più e abbiamo interessi diversi? Basta, lo butto via e chiudo la relazione con lui. Mio marito, mia moglie, non mi dà più la sensazione di un tempo, faccio difficoltà a sopportarlo, sopportarla? Mi separo.
Noi siamo abituati a consumare oggetti e persone allo stesso modo, guardando solo al godimento immediato e non alla realtà della cosa o della persona. In questa condizione, dove riponiamo tutto il senso della nostra vita nel qui e ora, come potremmo mai abbracciare Dio e il suo amore per noi? Non è possibile. Come disse Gesù, “nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Lc 16, 13).
Solo accettando che né un oggetto, né un amico, né un marito o una moglie possono riempire il vuoto che ci abita e dare un senso al nulla della nostra vita (Giobbe e Qoèlet), si potrà aprirsi al Vangelo. Solo tramite questa morte al mondo si potrà risorgere alla vita vera in Cristo e, di conseguenza, scoprire e abbracciare la vocazione, cioè il modo in cui egli ci ama. Come scrive M. I. Rupnik:

Sant’Ignazio di Loyola, ad esempio, nel suo percorso degli Esercizi spirituali segna il passaggio dalla prima tappa alla seconda proprio con la vocazione, con la chiamata che segue la presa di coscienza dell’assurdità della vita senza Dio. […] Il Signore chiama proprio dalla morte, cioè dal non essere salvati, alla salvezza che è esattamente la vita con il Signore, l’amicizia con lui2.

Come disse Gesù, “io sono la porta” (Gv 10,7): la porta è lui stesso, la chiave è la sua vita, morte e risurrezione. Quanto è difficile entrare per questa porta Signore, soprattutto per noi moderni che amiamo costruirci da noi stessi le porte per cui passare!
Gesù dice anche “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mt 19, 24). Noi siamo quel ricco, che conta su di sé, gode dei suoi beni mondani e non pensa che al godimento immediato. Mai una volta che mettiamo il Signore al primo posto, cosa che per noi è diventato un istinto dopo secoli dove l’uomo si è totalmente proteso a costruire la sua vita volendo fare a meno di Dio, anche a costo di essere infelice. Scrive ancora Rupnik:

Il clima dell’epoca moderna, così concentrata sul soggetto, sulla razionalità umana, sulla prospettiva umana, ci fa pensare alla vocazione piuttosto nei termini di un progetto di vita, di un’autoprogrammazione, lasciando così che ci sfugga il fatto che si tratta di un incontro […]. Dopo il peccato, questa vocazione diventa concretamente il cammino della redenzione, cioè l’esodo dall’autoconcentrazione, dalla chiusura sul proprio dolore, il male, la morte, verso l’apertura, l’incontro, un’esistenza di comunione, la scoperta di una vita che scorre attraverso le relazioni3.

Per uscire dalla crisi vocazionale che ha investito la Chiesa in questi anni è necessario passare da qui: una conversione radicale, cioè una metànoia [μετάνοια], un cambiamento totale del pensiero che consenta di nuovo alla Chiesa sposa di andare incontro a Cristo sposo.
Quanto questa crisi sia profonda lo si può toccare con mano quando si sente mettere in discussione il celibato dei sacerdoti. A differenza che nelle altre comunioni cristiane, in quella Cattolica Romana il presbitero è sposato alla Chiesa allo stesso modo di Cristo. Il celibato dei sacerdoti equivale al matrimonio dei laici in quanto è, di fatto, uno sposarsi con il popolo di Dio e la propria comunità locale.
Penso che il recente sviluppo della teologia della liturgia eucaristica, che vuole il popolo di Dio tutt’intorno alla mensa e partecipe del sacrificio eucaristico, sia estremamente indicativo di quale sia la nuova mentalità che il cristiano deve “sposare”, nel senso non figurato del termine: la mentalità di una vita che ruota tutt’attorno all’altare e alla vita della Chiesa, a quel miracolo che Gesù ci ha lasciato come porta aperta verso il Padre. Passare dall’io al noi, dal me al Tu di Dio, è il decentramento, il de-ombelicamento necessario al fine di scoprire la nostra vocazione, che è la nostra identità, la bellezza della nostra fede e soprattutto la bellezza del vivere con Cristo e con i fratelli.

Note:

1 V. Natalini, F. Campana, Come sale e lievito. Appunti per una teologia della vita consacrata della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2021.

2 M. I. Rupnik, Alla mensa di Betania. La fede, la tomba, l’amicizia, Lipa, Roma, 2017, p. 21.

3 Ibid. p. 39.

Giuseppe Scattolini


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