“Rimanere è oggi un verbo ostico e difficile. È considerato verbo da perdenti e sfigati, verbo di chi non sa cogliere l’occasione.” Cosa ha da dirci il Vangelo di questa domenica su questo tema? Cos’è questo innesto vitale di cui ci parla Francesco Pacia?

V Domenica di Pasqua 28 aprile

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.  Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». (Gv 15, 1-8)

Innesto come identità

La vera grandezza dell’uomo è nel capire chi è e per chi vive. L’identità è un dono ma anche una missione. La nostra è segnata da un’appartenenza radicale a Cristo. Siamo di lui e per lui. È un dono, che abbiamo ricevuto nel battesimo, ma anche una scoperta di cui appropriarsi e da curare, perché porti frutto.

Nella grande metafora della vite e dei tralci, Gesù ci apre uno squarcio sulla sua relazione al Padre e a noi. L’identità di Gesù è segnata da queste due relazioni, che lo attraversano e ne hanno segnato la storia, la persona e il corpo squarciato dalla croce, squarciato per sempre dall’amore. Innestati in lui anche noi scopriamo la natura relazionale della nostra identità: siamo suoi e per lui, come il tralcio che appartiene alla vite e che muore senza la vite. Siamo suoi – tralci a volte ostinati, tralci a volte ribelli – e attraverso di lui per il Padre e per gli altri, verso cui espanderci nei filamenti della nostra storia e persona.

Innesto e potatura

La nostra storia conosce a volte momenti di arresto, battute, sfrondamenti e potature. Non sono castighi o punizioni. È la cura del Padre, che sfronda ciò che non è vitale, ciò che toglie vita, ciò che soffoca, ciò che è affatica e appesantisce. Le grandi potature della vita – il dolore, la delusione, la perdita, la malattia, il bisogno, l’incomprensione – sono possibilità perché si porti frutto, per sé e per gli altri.

Non possiamo portare frutto da soli; solo chi rimane in lui, nella relazione con lui, può portare frutto. Perché è la sua vita che ci tiene in vita: come la linfa fa vivere i tralci, così la sua vita è liquido scheletro che ci sostiene e alimenta. È dono sì, ma anche impegno e responsabilità. Lui, infatti, ci dice che da parte nostra c’è un rimanere da coltivare.

Rimanere è oggi un verbo ostico e difficile. È considerato verbo da perdenti e sfigati, verbo di chi non sa cogliere l’occasione. Oggi il mondo chiede di evadere, fuggire, esorcizzare, potare i legami che richiedono troppo impegno e fedeltà. Oggi il mondo cerca la fluidità… di chi non resta mai definito da nulla: da una scelta, da un luogo, da una relazione, da uno scopo. Mentre il mondo ci chiede parossisticamente di cambiare sempre, di evadere e di fuggire in nome di individualismo e libertà, Gesù ci chiede di restare. Restare in lui, con lui, attaccato a lui.

Rimanere… per portare frutto

Di mettere le radici in lui, solo in lui, di attaccarci all’unico cordone ombelicale che non fagocita se non tagliato, l’unico cordone ombelicale che da vita davvero. Rimanere in lui, restare in lui, mettere le radici in lui, questo è il nostro vero e unico compito. Compito d’amore, di discepolato, di intimità con lui. Compito pasquale, perché significa lottare con lui contro la propria morte, contro la propria riluttanza a morire, e aprirsi alle filiazioni vitali che solo l’amore crocifisso genera. Il suo amore, il solo l’amore che resta, che non torna indietro, l’amore che non indietreggia, a cui siamo chiamati anche noi.

Anche noi siamo chiamati a portare, secondo ciò che siamo, il frutto del suo essere vita/vite/croce: saranno le situazioni, gli incontri, le vocazioni, le potature imposte o scelte, a far maturare il frutto della nostra vita, a partire dal rimanere in lui. Rimanere in lui, però, non significa essere statici, fissati per sempre, inchiodati e definiti una volta per sempre. È un rimanere dinamico che configura tutto, che segna per sempre un’appartenenza, ma si riscrive continuamente nella libertà alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Il tralcio si spande in filamenti e filiazioni inaspettate di grappoli, che fanno vino, materia prima della gioia e del dono, e sangue, materia prima dell’amore fino alla fine: è la nostra vita, a volte potata e gettata, a volte raccolta e spremuta, frutto suo, della sua vita.

*Il testo è apparso su Kairós. Comunità vocazionale Diocesi di Nola, Anno II, n° 2 – 28 marzo 2024, p. 15.

Francesco Pacia

Clicca qui per leggere il commento al Vangelo della scorsa domenica: https://www.legraindeble.it/pastore-bello/

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