Quanto vale un bambino? E’ un racconto-testimonianza per dire “SI” alla Vita, un bene sempre più prezioso ma sempre più in pericolo.

Avevamo programmato un viaggio prima di ricominciare la routine universitaria. Eravamo felici e spensierate fin quando non arrivò, come un fulmine a ciel sereno, la notizia inattesa della gravidanza di Serena. Il test di gravidanza non dava possibilità di replica. Serena aspettava un bambino dal ragazzo con cui aveva da poco concluso una relazione. Il panico iniziale, la rabbia, l’angoscia di una notizia del genere lasciarono il posto ad una “facile” soluzione: l’aborto. Per renderlo più “grazioso” lo si preferisce chiamare interruzione di gravidanza. Il nostro aiuto non mancò. Le prenotammo una visita dal ginecologo e raccogliemmo i soldi necessari per la visita. Ignare di ciò che stavamo facendo e pensando di fare del bene alla vita di Serena, ignorammo anche le parole del mio ginecologo, contrario all’aborto, che ci disse con autorevolezza e senza possibilità di replica: <<Io non pratico aborti, devi andare al consultorio per prenotarti l’interruzione>>. 

Così, una mattina di una qualunque settimana, prima di immergerci negli studi universitari, la accompagnammo ad abortire. All’andata il viaggio fu spensierato. Cantavamo e ridevamo come se stessimo andando a fare una scampagnata. Arrivammo e, dopo qualche ora, il “problema” non c’era più. Serena tornava a casa col grembo svuotato, con qualche dolore e con perdite che avrebbe giustificato con un ciclo tornato in modo anomalo. 

Tutto sembrava risolto ma il viaggio di ritorno fu devastante. Uno spirito di morte aleggiava in mezzo a noi e nessuno parlava. Nessuno aveva il coraggio di rompere quel silenzio. Sembrava stessimo tornando da un funerale nel quale avevamo perso qualcuno di importante, senza neanche rendercene conto. Lì compresi che era successo qualcosa di grave e di irreparabile. Uno strappo profondo che solo chi lo vive capisce davvero. 

L’anno dopo questo evento ci fu la mia conversione, il mio ritorno a Cristo. Sentire parlare di aborto cominciò a pesarmi ed è in quel momento che compresi perfettamente il delitto di cui ero stata complice. Non potevo far tornare in vita il bimbo di Serena ma potevo aiutare altre persone a non farlo e pregare affinché ciò non accadesse più. Dovevo riparare al mio errore, alla leggerezza che avevo usato nel trattare una vita. 

Scoprii l’esistenza del CAV: CENTRO DI AIUTO ALLA VITA, presente per legge in tutti i consultori in cui una donna si reca per abortire. Perché una donna ha il diritto di essere aiutata e sostenuta e non solo buttata tra le braccia di un tritacarne (ahimè!). Scoprii l’esistenza di un gruppo di preghiera che intercedeva per le donne che volevano abortire affinché fossero dissuase e ci teneva informati via mail. Offrivamo i nostri rosari e i nostri digiuni per queste intenzioni. Mi recavo spesso i sabati mattina presso l’ospedale in cui la mia amica aveva abortito per pregare fuori dal reparto di IVG. Scoprii che non esisteva più e che l’avevano unito al day surgery per la privacy di chi si presentava per interrompere la gravidanza. Andavo in cappella a pregare il rosario per quelle donne che per tantissimi motivi scelgono la via della morte. Una volta all’università, l’ambiente ospedaliero non aiutava di certo a difendere la causa della vita e tappezzai lo spogliatoio di opuscoli in cui si spiegava esattamente cosa avveniva durante un aborto. Il grido muto di un bambino che muore senza possibilità di scelta e quante possibilità ha una mamma. Perché quella donna è già una mamma e se abortisce, non si cancella la sua maternità ma lei diventa madre di un figlio morto. E la morte che accompagna una donna io l’ho sentita chiara e forte in Serena. L’ho toccata in quell’auto tanti anni fa. Non muore solo un bimbo, muore una mamma. 

Dopo poco scoprii anche il CAV Mangiagalli tenuto in piedi da una donna con una forza d’animo senza pari : Paola Bonzi. Perdonate la lunghezza dell’articolo ma non posso lasciarvi senza una sua testimonianza. 

“Da noi le ecografie sono all’ordine del giorno, ma questa. Una delle nostre prime mamme, forse di 32 o anche 33 anni fa era arrivata da noi dicendo schiettamente: “Sono incinta e voglio abortire. Io sono un’artista, recito, dipingo, sono specializzata in miniature (lo dice con un’aria di sussiego, evidentemente per guadagnarsi una certa stima da parte nostra). 

Il padre del bambino che aspetto mi ha abbandonata alla notizia della gravidanza, lasciandomi sola con l’affitto da pagare e senza risorse per vivere. Come farei con un bambino? Non posso!”.

Io a quel tempo mi recavo al CAV di pomeriggio e Gabriella era invece arrivata di mattina. Matteo, obiettore di coscienza, era presente invece tutto il giorno e quindi, sperando che io arrivassi presto per fare il colloquio, ha cominciato ad offrire a Gabriella, oltre al suo ascolto, anche un bel panino col salame. Le parole di Gabriella sono state tante; gli ha raccontato della compagnia con cui aveva recitato e purtroppo anche di due aborti precedenti. Ho fatto di tutto per arrivare in fretta; nella stanza si respirava un’aria piuttosto greve, poiché la storia di Gabriella iniziava con relazioni familiari molto difficili. Il colloquio è stato impegnativo; sembrava che l’intento di Gabriella fosse quello di mettersi in luce senza dare nessuno spazio a quel piccolo bimbo che cresceva dentro di lei. Dopo un’ora abbondante in cui sono stata praticamente zitta, ascoltandola con grande attenzione, triste per tutto ciò che mi andava raccontando, le ho mostrato la fotografia del nostro magico libretto che raffigura le fasi dello sviluppo intrauterino del bambino. Un singhiozzo soffocato. “Ma è proprio già così formato? Mi hanno sempre parlato di un grumo di sangue e di cellule, ma questo è proprio un bambino e se mi aiuterete lo farò nascere.”

I mesi passavano e per Gabriella arrivò anche il momento del parto. Poiché aveva dato alla luce suo figlio in Mangiagalli, siamo saliti per salutarla, ma non c’era. Abbiamo cominciato a chiedere notizie e grande è stata la meraviglia nel sentirci rispondere che si trovava nel reparto infettivi. Aveva il virus HIV. Tommaso ne era naturalmente infetto, ma la speranza era che crescendo si negativizzasse.

Facevano questo controllo ogni due mesi , dichiarando che probabilmente sarebbe successo attorno al nono mese ma che, se non fosse stato così, sarebbe cresciuto con questa spada di Damocle sulla testa. La paura dilagava dentro di me e a ogni controllo speravo nella buona notizia. E invece no, il virus continuava a essere presente. I medici però sembrava non si volessero arrendere ed ecco che finalmente Tommaso risultava sano.

Sono successe tante cose negli anni fino a che un giorno, al telefono, riconosco immediatamente la voce di Gabriella che, invece, andava sviluppando la malattia. “Ti ho sempre sentita vicina, Paola, anche se non ti ho più telefonato. Ora però c’è una cosa speciale. Tommaso si è sposato, ha frequentato la facoltà di antropologia con successo e ora mi ha portato una cosa che ti voglio descrivere: l’ecografia del bambino che stanno aspettando. Ho nel cuore una gioia strana, penso anche ai miei bambini non nati e ho sentito immediatamente il desiderio di comunicare a qualcuno che ora stava per arrivare un bimbo, il mio nipotino. A chi potevo dirlo, se non a te?”.

Paola è morta nell’agosto dell’anno scorso ma di bambini ne ha fatti venire al mondo tantissimi. Era cieca ma vedeva benissimo le sofferenze di tutte le donne impaurite e sole che le si sono sedute davanti. Ogni donna merita di essere salvata insieme al suo bambino. 

Storie di santità nascosta sono presenti nella nostra rubrica Santi nascosti.

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