C’è chi nasce per essere il numero uno: sempre sotto i riflettori, spigliato, leader, capace di trascinare, vincere e convincere. E poi c’è chi, al contrario, è chiamato a lavorare dietro le quinte. Il numero due, quello su cui si può sempre contare, colui che non ama apparire e che, quando è chiamato a svolgere ruoli di responsabilità e di guida, li ricopre forzando la propria natura schiva.
È il caso di Timoteo, un giovane timido e dalla salute malferma che non solo compare negli Atti come collaboratore fidato di Paolo, ma risulta essere addirittura il destinatario di due lettere dell’apostolo delle genti.

Il suo nome appare inoltre in numerose altre lettere. Leggiamo ad esempio al termine di quella ai Romani (16,21): «Vi saluta Timòteo mio collaboratore».
Nella prima lettera ai Corinzi (4, 17) Paolo lo definisce: «mio figlio carissimo e fedele nel Signore». E specifica: «Egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo». Quindi raccomanda ai corinti di trattarlo bene: «Fate che non si trovi in soggezione presso di voi: anche lui infatti lavora come me per l’opera del Signore».
Nell’apertura della seconda lettera ai Corinzi, e in diverse altre epistole, l’apostolo si firma con Timoteo, quasi fossero una cosa sola.
Negli Atti la presentazione di questo personaggio la troviamo al capitolo 16: «Paolo si recò anche a Derbe e a Listra. Vi era qui un discepolo chiamato Timòteo, figlio di una donna giudea credente e di padre greco: era assai stimato dai fratelli di Listra e di Icònio. Paolo volle che partisse con lui, lo prese e lo fece circoncidere a motivo dei Giudei che si trovavano in quelle regioni: tutti infatti sapevano che suo padre era greco». Il nome della madre Eunìce lo troviamo esplicitato nella seconda lettera a Timoteo (1,5) insieme a quello della nonna Lòide. Di entrambe Paolo dice di ricordare la “fede schietta”.
Timoteo resta sempre al fianco di Paolo, salvo quando lui lo manda in missione nelle chiese che ha fondato, per correggere errori e mettere pace: succede a Tessalonica, a Corinto e infine a Efeso, dove Timoteo prende la guida di una comunità cristiana tutt’altro che tranquilla. E resterà a capo di quella chiesa fino alla morte, negli ultimi anni del primo secolo.
Da questo personaggio cogliamo in modo particolare due spunti che possono aiutarci a rileggere il nostro cammino di fede: la fede coltivata in famiglia e l’amicizia cristiana.

La famiglia

Di pochi personaggi del Nuovo Testamento conosciamo i parenti. Timoteo è un’eccezione, perché la sua fede germoglia in una famiglia che oggi potremmo chiamare interculturale. Greco da parte di padre, ebreo da parte di madre. E paiono essere soprattutto la madre e la nonna le artefici di un’educazione religiosa che fa di Timoteo un giovane sensibile e fervente.

Oggi nei paesi occidentali si assiste a un progressivo indebolimento di questo tipo di educazione. I genitori vengono incoraggiati dalla cultura dominante a delegare l’educazione dei figli: alla scuola, ai media, ai social. L’idea di fondo sembra essere questa: il mondo cambia molto velocemente e voi non riuscite a stare al passo, quindi lasciate che siano altre persone, più aggiornate e più competenti di voi, a plasmare le menti e le vite dei vostri figli, in modo da renderli capaci di affrontare il mondo di domani. In tanti cascano in questo trabocchetto e cedono le armi.

Quindi in famiglia non si prega più, vengono cancellati riti e tradizioni, ci si allinea al politicamente corretto e nessuno osa mettere in discussione le scelte dei figli. Neppure se ne parla più di fede. Reggono, qualche volta, i nonni che, bucando le barriere intergenerazionali, riescono a entrare in sintonia con il cuore dei nipoti.
Per tutti può essere utile provare a rileggere la propria famiglia (di origine, e quella che magari si sta creando o si è creata) con quest’ottica.

Quanto la mia famiglia è un ambiente favorevole alla trasmissione della fede in Cristo?
Quali sono gli ostacoli? Quali i muri di gomma contro i quali andiamo a sbattere?

L’amicizia

Tanto è inflazionato il termine “amicizia” quanto è stata relegata nel dimenticatoio l’espressione “amicizia cristiana”.

Sembra davvero roba d’altri tempi. Eppure la storia della chiesa e l’esperienza di chi la vive nel presente ci dicono quanto sia importante per ogni percorso autenticamente umano. Quella tra Paolo e Timoteo ne è un esempio luminoso e talvolta commovente.

«Tu mi hai seguito da vicino nell’insegnamento, nel modo di vivere, nei progetti, nella fede, nella magnanimità, nella carità, nella pazienza, nelle persecuzioni, nelle sofferenze» si legge nel capitolo 3 della Seconda lettera a Timoteo che, è bene ricordarlo, Paolo scrive da Roma dove è prigioniero e dove verrà giustiziato. E poco oltre, ricordando che «nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito» quasi lo implora: «Cerca di venire presto da me», aggiungendo poi una richiesta molto concreta: «Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene».

La fede solitaria prima o poi avvizzisce. Anche i grandi, come Paolo, hanno voluto e coltivato amicizie vere, grandi e forti. Lo stesso vale per noi.

Proviamo a domandarci, con sincerità e schiettezza: chi sono i nostri amici? Con chi condividiamo l’avventura della fede?

Patrizio Righero

Se vuoi conoscere e approfondire la storia di s. Filippo, clicca qui.

Condividi questa pagina!