Orfeo ed Euridice

Tutti conosciamo la storia di Orfeo ed Euridice. Lui, cantore e musico di ineguagliabile bravura e dalla cetra psicagogica; lei, ninfa Amadriade di imparagonabile bellezza, capace ugualmente di infiammare passioni. Due amanti divisi dalla morte. 

Virgilio dedica l’ultima parte del IV libro delle Georgiche a una storia di rinascita: le api di Aristeo morte – perché aveva causato la morte di Euridice – ritornano alla vita dalla carcassa di un bue. Dalla morte la vita! Ma in questa storia a lieto fine inserisce la storia non a lieto fine degli amanti di cui sopra. Orfeo pure entra nella carcassa della morte, nell’Ade. Ma diversamente dalle api di Aristeo, la sua amata Euridice non ritorna con lui alla luce. Eppure c’era quasi. L’aveva ottenuta. L’aveva strappata alle grinfie di Ade e ai suoi freddi compagni:

madri e uomini, e corpi privi di vita 
di magnanimi eroi, fanciulli e giovinette ignare di nozze, 
giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori 
(Verg. Georg. IV, 475-477)

Orfeo ce l’aveva quasi fatta. Bastava che lui non si girasse durante la risalita. Ma lo fa… un attimo, un ultimo eterno sguardo e poi la perde per sempre. Si doveva girare, non poteva andare diversamente – diranno alcuni; l’escatologia antica è meno luminosa della nostra. O meglio è più incerta. Non pare possibile una relazione d’amore oltre e nella morte.

Per un istante di eternità

Orfeo si dispera per mesi. Poi muore tenendo sulla bocca ancora e per sempre il nome del suo amore. E, anche se è morto pure lui, non sembra che ai due sia dato di ritrovarsi nella morte. Almeno non per gli antichi. Dino Borcas immagina che a Orfeo sia dato solo il ricordo di quell’ultimo istante di eternità che ancora li rese complici oltre la morte. Perché poi è il nulla per la visione del mondo e della vita degli antichi. E nemmeno è possibile uno stralcio di relazione tra un vivo e un morto.

Vita oltre la morte in pienezza

Il nostro orizzonte culturale e spirituale (?) è diverso. Per il cristianesimo, esiste una vita personale oltre la morte. Che non è solo affare dell’anima ma anche del corpo. Che non è solo individuale, ma anche relazionale. C’è la risurrezione della carne. C’è una Città – una comunità – in cui ci si ritroverà. E sarà vita in pienezza. E non solo! E, infatti, nel nostro immaginario collettivo abbiamo Foscolo (la corrispondenza di amorosi sensi) e Dante (la vita oltre la morte).

Paolo, Francesca e il Paradiso

E così a Orfeo ed Euridice abbiamo sostituito Paolo e Francesca, ad esempio, che vivono insieme nell’oltre-la-morte. E quel vivere insieme l’inferno della pena eterna – insinua Borges – sarà sembrato addirittura un paradiso al Dante perennemente innamorato di Beatrice, che lo scrittore argentino si ostina a tratteggiare in questa veste, come se la Commedia fosse solo il sogno per riacciuffare la morta e irrimediabilmente perduta Beatrice. Ma non è così. Eppure, come è bello poter credere che stando con il nostro amore nella morte anche l’inferno possa essere un paradiso!

E, ancora di più, abbiamo quella magnifica scena del Paradiso dantesco, in cui dopo che Salomone ha parlato della resurrezione della carne, i beati incominciano a far festa a suon di “Amen!”, bramosi di riavere il corpo, non solo per una compiutezza e pienezza personali, ma anche perché pregustano gli abbracci che potranno dare ai loro cari: mamme, padri, figli, mariti, mogli, fratelli, amici, amanti, parenti e congiunti, di sangue o del cuore. 

Tanto mi parver sùbiti e accorti 
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!», 
che ben mostrar disio d’i corpi morti:                            

forse non pur per lor, ma per le mamme, 
per li padri e per li altri che fuor cari 
anzi che fosser sempiterne fiamme.  
(Dante, Paradiso XIV, vv. 61-66)

l Paradiso dantesco sembra incompleto senza gli abbracci di quanti ci hanno e abbiamo amato. Non si godrà solo di Dio ma anche della relazione, senza ombre, con coloro che abbiamo amato, prima, dopo e oltre la linea divisiva, (in)valicabile – dall’una e dall’altra parte – della morte.

Traicit et litora fati magnus amor (Prop. I, 19, 12). Così Properzio, poeta latino dell’età classica, cantava all’amata Cinzia: un grande amore varca anche le rive del Fato, travalica anche le rive estreme della morte.  E non sarà questione di istati rubati, come per Orfeo ed Euridice, ma di eternità!  Al di là di ogni operazione letteraria e di ogni questione di fede religiosa, un po’ tutti ci abbiamo sperato almeno una volta.

Francesco Pacia

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