Riprendiamo le fila del nostro discorso attorno alla poesia con il caro Don Giuseppe Bianchini, che ci aveva lasciato su una riflessione di Antonia Pozzi (clicca qui per leggere lo scorso articolo). Ci addentreremo ora in alcuni suoi versi per scoprire quale sia il ruolo della parola per l’animo umano.

Foto di bingngu93 da Pixabay

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.

La poetessa è qui come quei bambini che appena edotti sull’uso dei colori ti portano, meravigliati loro stessi innanzitutto, l’opera prima da loro realizzata; magari un simpatico scarabocchio che agli occhi del bambino assume, e di chi lo guarda, per un minimo di immedesimazione, la forma di un segreto.

Nella poesia della Pozzi ritroviamo tutto lo stesso identico slancio di tenerezza, di innocenza; come il bambino, con il disegno di fronte a chi lo guarda, la poetessa, sospesa nel respiro, attende che l’altro, un altro senza connotazione, sostando a leggere i suoi versi, li trovi belli, li faccia propri.

Lo possiamo rinvenire nell’esperienza: non si tratta di approvazione del lavoro svolto ma di coinvolgimento insieme e di partecipazione al comune destino. Il poeta comunica il suo e nostro segreto: c’è nell’anfratto più sceso del mistero umano una domanda, come una invocazione, come un “tu” continuo, come un “dove sei?”. Ed è l’assenza, o la lontananza non misurabile, di questo “tu” a generare il dolore riferito nella lettera della Pozzi.

Don Giuseppe Bianchini

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