Ci siamo lasciati lunedì con Fra Giuseppe, ormai frate professo, lasciato a casa il titolo nobiliare dei Ghezzi, aveva preso sulle sue spalle la bisaccia ed aveva iniziato i suoi giri di questua. Pratica ormai caduta in disuso che permetteva ai religiosi di conoscere molte persone, stare in mezzo a loro e vivere il semplice ma fecondo apostolato della presenza.

Fu fedele ai suoi incarichi anche quando, a causa di una infezione al mignolo del piede (che gli fu amputato senza anestesia), poté svolgerli a gran fatica. Il passo divenne incerto, fu costretto quasi a trascinarsi di porta in porta a costo di non poche umiliazioni, ma lui confidava: «Deve essere bello vedersi sbattere le porte in faccia».

Fu a Manduria e a Lecce durante la Prima Guerra Mondiale e proprio l’8 dicembre 1915, a quarantatré anni, fece la professione perpetua. Giungevano dal fronte le tristi notizie della morte di tanti giovani e i problemi di salute divennero, per Fra’ Giuseppe, strumento di espiazione. Alla sorella carmelitana scrisse: «Raccomandiamoci al Signore che ci aiuti a diventare più buoni e ci conceda la grazia specialissima di offrirci vittime d’immolazione per i peccati degli uomini».

Nel 1916, per un’infezione, le gambe divennero piagate e sanguinolente. Faceva pena vederlo, ma lui tutto offriva in suffragio delle tante vittime che l’odio andava mietendo in tutta Europa. Per penitenza, di notte, riposava su una sedia.

Anche nel Salento i tempi difficili del dopoguerra lasciarono il posto alla vita normale. Appena gli fu possibile riprese a questuare diffondendo le riviste missionarie, noncurante del fatto che, per il suo zoppicare, era a volte deriso.

Passarono gli anni, arrivò il Fascismo, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi morti e con i suoi orrori e fra Giuseppe nulla poteva se non pregare. Dal 1948 la frattura del femore sinistro lo costrinse alla sedia a rotelle e a non lasciare più il convento di Lecce. Furono allora i suoi tanti devoti a ricambiare le innumerevoli visite che l’umile frate aveva fatto durante il suo semplice quanto fecondo apostolato.

Fra Giuseppe fu soprattutto un uomo di preghiera. Scrisse: «Oh Signore, l’incenso della mia umile preghiera si innalzi a te come lode perpetua, adorazione incessante, benedizione eterna, riparazione continua. Tutti i palpiti del mio povero cuore ti dicano e ti ripetano incessantemente: Ti amo Gesù mio!».

Da sempre devotissimo della Madonna, memore della prodigiosa guarigione di quando era ragazzo, recitava più volte al giorno il rosario, coinvolgendo quanti poteva, inginocchiandosi anche in cucina di fronte alle pentole.

Non ostentò mai la sua cultura, che almeno dal punto di vista religioso era eccellente, avendo studiato dai gesuiti ed appartenendo ad una famiglia benestante. Non primeggiò mai sui confratelli o su quanti entravano in contatto con lui. Era un contemplativo, cercò per tutta la vita solo di raggiungere la vetta della santità. Era cercato di continuo, si diffuse pure la fama che operasse dei miracoli.

Dopo il Natale 1954 la salute peggiorò velocemente: Fra’ Giuseppe Ghezzi morì la sera del 9 febbraio 1955. Nel ricomporre la salma si scoprì che aveva indosso diversi strumenti di penitenza. Il funerale fu solenne e trionfale, con un’eco vastissima. Fra’ Giuseppe come emerge dai ricordi della sorella e di coloro che l’hanno avvicinato, fu un’anima perfettamente eucaristica. Viveva Gesù nell’Eucaristia, avendo chiaro che il suo posto era accanto al Tabernacolo per offrirsi con Gesù Ostia, vittima di riparazione perenne, infatti rimaneva per lunghe ore ad adorare. Seppe, anche per questo, conquistare il cuore delle persone che lo seguivano con fede e con profonda umiltà. Egli trovò in Gesù Sacramentato i valori spirituali che dettero calore e senso alla sua vita.

Amante della vita interiore, Fra’ Giuseppe, visse in continua presenza di Dio. La sua è una spiritualità eucaristica ed espiatrice, che si articola in due linee come «due rami che partono dallo stesso tronco»: l’amore di Dio e quello del prossimo. Praticò la povertà secondo lo spirito di San Francesco e mantenne, durante tutta la sua esistenza, un distacco totale dai beni terreni. La sua vita scorse, giorno dopo giorno, sotto l’austera ombra del Crocefisso.

Il nulla osta per l’avvio della sua causa rimonta al 19 giugno 1982, ventitré anni dopo la sua morte. Il decreto di convalida degli atti del processo cognizionale portano invece la data del 24 gennaio 1992. Nello stesso anno fu presentata la “Positio super virtutibus”, che venne esaminata dai Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi il 14 aprile 2000 e, il 17 novembre seguente, dai cardinali e dai vescovi membri del medesimo Dicastero. Il giorno successivo, il 18 dicembre 2000, il Papa san Giovanni Paolo II autorizzava la promulgazione del decreto sulla eroicità delle virtù di fra Giuseppe Ghezzi, conferendogli il titolo di Venerabile.

La totale disponibilità e docilità di Fra’ Giuseppe verso la Chiesa non è da confondersi con la soggezione e la schiavitù. La docilità di Fra’ Giuseppe nasce da una continua contemplazione di Dio; da una continua accettazione. Quella costituzione fisica precaria, che lo aveva accompagnato fin dalla giovinezza lo “abituò” ad essere docile. Non si stancava mai di raccomandare agli altri la docilità e l’obbedienza.

L’amore, scrive in una lettera del’11 gennaio del 1912, nasce dalla continua docilità alla volontà di Dio, per questo chiede che gli venga “impetrato” questo «fervente amore a Gesù Cristo che è la base e il fondamento di ogni nostra speranza». L’umile frate con la bisaccia seppe farsi disponibile e generoso verso la Chiesa; nelle varie obbedienze richiestegli seppe individuare la volontà provvida di Dio.

Andrea Maniglia

Troverete la prima parte di questo articolo qui: rubrica “santi nascosti”

Per chi volesse approfondire, ecco il sito ufficiale di Fra Giuseppe Ghezzi. http://www.fragiuseppeghezzi.it/la-vita/

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