“Desiderio desiderare” di creare discordia. Una riflessione sulla Lettera Apostolica «Desiderio desideravi» è un approfondimento contenuto all’interno della nostra rubrica ABC Liturgico a cura del prof. Lanni Cristian.

1. Osservazioni generali sul Documento

Lo scorso 29 giugno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il Santo Padre Francesco ha promulgato la Lettera Apostolica Desiderio Desideravi, sulla formazione liturgica del Popolo di Dio. Da quel giorno si è scatenata una querelle di articoli più o meno fondati, tutti accomunati da un unico intento, il “dediderio desiderare” di creare discordia ed attaccare il Pontefice, ma ancor più da legante funge il fatto che molti la Lettera neppure l’hanno letta e dunque scrivono o parlano per partito preso.

Volendo partire dal nomen stesso del documento, «Desiderio desideravi», il Pontefice ha voluto ricavarlo dalle parole del Signore Gesù (Lc 22,15) «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar». Dunque dal desiderio del Divino fondatore di consumare l’ultima cena con i Suoi, il momento di istituzione del Sacerdozio e della Divina Eucarestia, dal cui memoriale scaturisce il Culto Divino. Ciò chiarito, un cenno doveroso va fatto alla forma scelta dal Pontefice, la Lettera Apostolica. Nella gerarchia dei documenti pontifici, questo, si colloca al quarto posto, dopo la Costituzione apostolica, l’Enciclica e l’Esortazione apostolica; tale forma, genericamente di un documento aperto alla pluralità del Popolo di Dio che potremmo (per contenuti) considerare conseguente al Motu proprio indirizzato specificatamente ai Vescovi, Traditionis custodes. Alla luce di ciò va osservato necessariamente che quello del Pontefice non è un documento da intendersi come una nuova istruzione contenente norme cogenti — la forma giuridica stessa lo dice —, quanto piuttosto una meditazione per comprendere la bellezza della celebrazione liturgica e il suo ruolo nell’annuncio del Vangelo. Non si sono fatti attendere articoli che tentavano un goffo paragone/scontro tra la Desiderio Desideravi ed il Motu proprio Summorum pontificum, di Benedetto XVI, come già accadde con il Motu proprio Traditionis custodes. Non si parte certo da un buon punto, dato che i saggi liturgisti occasionali tentano il paragone tra due Documenti diversi. Da un lato una Lettera Apostolica che come detto non detta alcuna normativa, dall’altra una Lettera di iniziativa del Supremo Legislatore che invece detta delle norme in una specifica materia. L’assurdo paragone già potrebbe metter fine alla discettazione, ma poiché per dirla con Goethe, niente è più terribile dell’ignoranza in azione, evidenzieremo alcune assurdità dei detrattori non della figura di Francesco, ma più gravemente del Papa in genere.

2. Non sequitur

La prima accusa mossa è quella di un presunto non sequitur rispetto al predecessore. Il Pontefice porterebbe avanti tesi contraddittorie rispetto a Benedetto XVI. Il non sequitur non è solo liturgico, ma sarebbe anche metodologico, ovvero l’accusa mossa è circa l’utilizzo dello strumento della Lettera Apostolica in luogo di un’altra forma pure possibile. Tuttavia sfugge ai detrattori che anche Benedetto XVI aveva fatto ricorso a questa metodologia e non certo per questioni meno rilevanti. Ne citiamo due: la lettera indirizzata ai Vescovi d’Irlanda sul tema degli abusi e la Lettera indirizzata ai Confratelli nell’Episcopato circa la remissione della scomunica a quattro vescovi lefebvriani. Vero è che la prima fu definita “lettera pastorale” e la seconda solo “lettera”, ma va necessariamente considerata la materia: quelle di Benedetto erano materie specifiche, questioni particolari che certamente non potevano rientrare negli elementi del Magistero pontificio in genere; erano due risposte o chiarimenti a questioni molto specifiche, la materia liturgica, invece deve giustamente rientrare negli insegnamenti del Magistero ordinario. Per quanto concerne il presunto non sequitur dottrinale e, se vogliamo, specificamente liturgico, in vero questo argomento va affrontato partendo da un presupposto: nessun Pontefice è un “caso” storico scisso dal suo essere persona e ogni persona è diversa dall’altra. Dunque, seppure apparentemente contrapposti ed opposti Benedetto e Francesco sono in un filone di continuità storica. Le loro diverse personalità, come i nomi stessi indicano, rispondono a due diverse sfide della modernità una statica e l’altra dinamica. La prima — affrontata da Benedetto — quella del nichilismo postmoderno e la seconda, sociale e dinamica — affrontata da Francesco — circa il dilagante individualismo neoliberalista. Il punto di incontro e congiunzione è rappresentato dalla Lumen fidei, scritta a quattro mani dai due. Francesco ha tradotto in termini di dinamicità pratica l’indicazione teorica data da Benedetto; il fulcro della fede in risposta al nichilismo: Deus caritas est, si è tradotto dinamicamente in una vita fedele al Vangelo — Evangelii gaudium — per non tradire quell’amore che da vita. A riguardo specifico della liturgia e del Concilio, l’accusa che sintetizza il presunto non sequitur è che Francesco non parli di presenza reale. Per rispondere partiamo da una affermazione di Benedetto XVI che nell’udienza del 17 novembre 2010 parlava della presenza reale in termini di un incontro. Nell’Eucarestia, presenza cristocentrica, incontriamo l’amore di Dio, incontriamo la passione, morte e resurrezione di Cristo. È il medesimo incontro di cui Francesco parla nei nn. 10 e seguenti della Desiderio desideravi. In cui definisce la liturgia il luogo dell’incontro con Cristo, ribadendo che non si tratta dell’incontro con un’ideale di resurrezione, di un ricordo di un evento passato, ma di un incontro con il Risorto, presente e vivo, si tratta di ascoltare la sua voce in «perfetta continuità con l’incarnazione». La liturgia continuità dell’incarnazione, il luogo per eccellenza in cui Dio si è fatto uomo, presente, vivo.

E dunque non è questo un elemento di continuità tra Benedetto e Francesco? Non ha forse il secondo tradotto praticamente l’aulica contemplazione teologica del primo? È la continuità incarnata nella specificità di due diverse personalità che danno alla storia della fede un medesimo apporto in due differenti metodologie. Non esiste alcun non sequitur, ne dottrinale ne liturgico.

3. L’attacco alla tradizione

La bandiera degli “anti Francesco” che in realtà si sono trasformati semplicemente e più gravemente in “anti papato” è sempre la stessa: c’è un duro attacco alla tradizione della Chiesa, in particolare sulla Liturgia, ma più in generale sulla dottrina. Leggendo approfonditamente Traditiones custodes e volendolo (come si fa) paragonarla al Summorum pontificum, ritenendo uno abrogativo dell’altro, non può sfuggire che i tradizionalisti (cosiddetti) interpretano erroneamente l’intenzione di Benedetto XVI. Presupponendo infatti che una mente così profondamente colta ed illuminata dalla fede non potesse errare in questa maniera, si vede come la posizione attribuita al Summorum pontificum ratzingeriano del vetus e novus ordo quali “due usi dell’unico rito” è palesemente ossimorica: le due ecclesiologie che soggiacciono alle due messe così presentate, sono antitetiche e incompatibili. E parliamo di Traditionis custodes perché, come detto Desiderio desideravi non ha forza di legge, ma come il Pontefice stesso l’ha definita è una riflessione non esaustiva.

L’ecclesiologia comunitaria veicolata dal Vaticano II, ponendo a fondamento la categoria di popolo di Dio è chiaramente differente da quella precedente, dove l’autorità veniva (quasi) prima della comunità e la conversione prima del dialogo. E allora, se con la riforma liturgica di Paolo VI la Chiesa si è data una nuova lettura della lex orandi per una nuova lettura della sempre salda lex credendi, è impossibile che due lex orandi differentemente fondate possano rispecchiare un’unica lex credendi, immutata. Ecco perché, nel chiedere espressamente ai fedeli che intendano celebrare vetus ordo la chiara accettazione del Concilio, Traditionis custodes, dal suo punto di vista, ne ha pienamente diritto e ragione. All’affermazione poi di chi dice che il cosiddetto vetus ordo non sia mai stato abrogato come rito, risponde direttamente la Costituzione Apostolica Missale Romanum, allorquando afferma «Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle costituzioni e negli ordinamenti dei Nostri Predecessori». Dunque, quando il Pontefice pone restrizioni alla deriva tradizionalista di chi giunge ad affermare l’invalidità di un Concilio ecumenico, lo fa in piena coerenza con quanto il Concilio stesso ha definito, coerenza che anche il suo predecessore, riconoscendo la validità e la santità del nuovo rito ha sempre mantenuto. Non dimentichiamo, infatti, che i tempi della promulgazione del Summorum erano gli anni in cui il Pontefice tentava di mettere fine allo scisma aperto dai lefebvriani e alla sofferenza di molti rimasti in comunione con Roma. Ma attenzione, il Documento elimina l’eccezionalità degli indulti giovanneo paolini e apre al perimetro della straordinarietà. Non è banale la differenza, anche in diritto. L’ordinario rientra nell’ordine naturale delle cose, ovvero contenuto nei limiti della norma e della regolarità. È straordinario quello che va oltre i limiti della norma e per questo ha bisogno d’essere concesso in senso estensivo o restrittivo. La riforma liturgica non va certamente ri-formata, «non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola», così il Pontefice Francesco parlava all’udienza per i partecipanti alla settimana liturgica nazionale nel 2017 e così riprende il discorso nella Desiderio desideravi, rimanendo — per il dispiacere degli “anti papa” — in piena conformità con quanto già Benedetto XVI asseriva nel dire che la riforma del Concilio non è stata compresa e ben applicata, ne sono stati disattesi i principi (cfr. J.Ratzinger, Opera omnia,Teologia della liturgia,11, VII. I 40 anni della Costituzione sulla Sacra Liturgia, p. 771-772). Certo, se una discrasia si vuol ricercare potrebbe essere che la medesima concezione di una materia si traduce in due diverse metodologie operative: più contemplativa e teorica l’una, più dinamica e fattuale l’altra. D’altro canto come lo stesso Ratzinger affermava nella lettera del 7 luglio 2007, esplicativa del Motu proprio, «nella storia della liturgia vi è crescita e progresso, ma non rottura».

4. Conclusioni

Il problema fondamentale della questione liturgica è una ignoranza di fondo di chi crede di avere in tasca la verità. Ogni Concilio, infatti, rappresenta un’innovazione. Questo non vuol dire che cambi la struttura fondamentale della Chiesa, cioè che mutino gli elementi costitutivi. Diverso discorso per le pratiche ecclesiastiche. Anche il Concilio di Trento ha costituito una rottura con le pratiche ecclesiastiche precedenti. I “decreti di riforma” messi in pratica soprattutto da San Carlo Borromeo, hanno profondamente innovato la Chiesa Lombarda e Piemontese, per esempio. Il Vaticano II è stato un aggiornamento nella continuità: per vivere in modo autentico la tradizione della Chiesa c’è bisogno di rinnovarsi. Il tesoro della Chiesa, come diceva sant’Ireneo, è un tesoro vivo che ringiovanisce continuamente il vaso che lo contiene. Le critiche che i tradizionalisti muovono al Vaticano II sul tema della liturgia non tengono conto del fatto che ogni Concilio è un aggiornamento nella continuità: la Verità rivelata resta sempre la stessa, ma cambiano le parole e il metodo per far arrivare quella Verità al cuore degli uomini e delle donne. Potrebbero porsi come un ponte tra animi differenti di una stessa fede e invece si pongono come mine che distruggono i ponti. Si sono trasformati in “anti Papa” e da quella che sembrava essere una avversione alla persona o al pensiero di Francesco sono passati ad un’avversione al papato. È vero che ogni riforma crea delle resistenze, ogni novità può crearne, ma i cosiddetti tradizionalisti hanno fatto della liturgia una bandiera e una ideologia di partito preso, senza alcun fondamento. Parlano di anti Papa e si pongono come tali, parlano di tradimento della tradizione e si pongono come traditori di quella tradizione da cui lo stesso Concilio scaturisce. Parlano di protestantesimo e agiscono come quel Lutero che pensava di essere nel giusto attaccando il Successore di Pietro. Dalla protesta al protestantesimo, dalla critica costruttiva allo scisma talora il passo è breve, il confine fragile.

Prof. Cristian Lanni

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