Con il cibo sempre sulla bocca!

Se prestassimo un po’ di attenzione alle parole più ricorrenti delle e nelle nostre giornate, uno dei primi posti, sicuramente nella top ten, verrebbe occupato dalla parola “mangiare” e da tutta la sua cerchia semantica, come ad esempio: cibo, saziarsi, nutrirsi, fame. Ciò non stupisce, perché per vivere abbiamo bisogno di mangiare. E spesso, amando mangiare bene, il cibo è sempre sulla nostra bocca, anche quando non mangiamo.

Cosa non dissimile accade nella liturgia della Parola odierna. Se infatti sottolineassimo le ricorrenze – cioè le parole che si ripetono nei brani proposti – avremmo un piacevole sorpresa. Anche qui l’area semantica del mangiare è ben rappresentata, a partire dal libro di Giosuè ove si narra della prima Pasqua celebrata dal popolo d’Israele, finalmente, approdato nella Terra Promessa, qui in pochi versetti dal 9 al 12 la parola “mangiare” ricorre tre volte. Anche nel ritornello  del salmo responsoriale torna un verbo sensoriale affine, come “gustate”, riferito questa volta a Dio: “Gustate e vedete com’è buono il Signore”. Ma leggiamo il brano del Vangelo.

Dal Vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32

I due figli

In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
 
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.

Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Il ritorno

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
 
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.

Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

La fame di un giovane…

Il trionfo della ricorrenza è nella pericope evangelica di Luca, il famosissimo brano del Padre Misericordioso. In esso tutto sembra parlare di cibo, non solo materiale, anche quando esso non è esplicitamente nominato. La parabola si apre con un figlio a dir poco affamato che per andare dietro alla sua fame decide di allontanarsi dalla sua famiglia, dalla sua casa e soprattutto da suo padre. Di cosa ha fame questo figlio? Di autonomia? Di libertà? Di indipendenza? Di attenzione? Forse tutte o forse una o forse altre. Il giovane del Vangelo non è, e non può essere, troppo diverso dai giovani dei giorni nostri che per svariati motivi, alcuni più che giusti, decidono di lasciare o vorrebbero lasciare il nido famigliare per spiccare il volo.

Così il figlio minore parte per un paese lontano per mettere a frutto la sua eredità non solo economica, ma anche di esperienza, di vita. Lì, “quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno”. Questa combinazione di carestia e bisogno lo spingono a compiere un lavoro vergognoso per un ebreo in quanto impuro: pascolare i porci.

Questo lavoro, invece che saziare i suoi bisogni, le sue molteplici fami, lo conduce ad un livello ancora più basso… O forse più profondo, tanto che prorompe in un grido di aiuto straordinario e pieno di vera fame: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Decidere

Ora io fermerei la pellicola del film su questa scena. Il figliol prodigo ha raggiunto uno stato di vita che gli permette di compiere una serie di gesti decisivi per ogni esistenza: fermarsi, riflettere, prendere consapevolezza, rialzarsi e tornare o ritornare. Finora aveva sempre corso dietro alle sue fami senza forse mai domandarsi dove lo avrebbero portato… Non si era mai chiesto se quella fame dovesse essere saziata o meno. In questo preciso istante, colpito anche nell’orgoglio ma non solo, inizia a riflettere, a guardarsi intorno, indietro e dentro.

E lì scopre una realtà incredibile: forse scappare non era stata la cosa migliore, forse quella fame non poteva essere saziata con un’eredità monetaria e con un allontanamento da chi è stato causa di quella fame. Ora il giovane si alza, tipico gesto di colui che sorge o risorge… Ma anche di chi decide, con forza, di non essere più succube delle proprie fami ma vuole prenderle su di sé, discernerle e coabitarci.

Infine l’atto finale: il ritorno. Tornare non deve essere stato un atto facile, né tanto meno piacevole. Ma quel giovane era divenuto consapevole che tornare era la scelta migliore. Non solo la più vantaggiosa, ma anche la più saggia: tornare per restare, per dimorare con le proprie realtà, con i propri bisogni, senza scappare, senza allontanarsi.

Una fame salutare

Questo Vangelo ha risvegliato in me una consapevolezza recentemente acquisita: cioè che spesso sono come un bambino che ha fame e, senza starci a pensare troppo su, apre la dispensa e mangia quello che trova: biscotti, dolciumi, etc. Il bambino non si chiede se ciò che mangia gli farà bene o male, vuole solo “riempirsi la pancia”. Come il figlio minore mentre sta a pascolare i porci, non si domanda se mangerà fra un un’ora o fra dieci minuti: ha fame e  mangia. La mia vita spirituale spesso non è così dissimile: una corsa sfrenata a riempire i vuoti, anche quando quei vuoti sono salutari e ci aiutano a renderci conto che ciò di cui abbiamo bisogno non è un cibo materiale, ma qualcosa di più alto e prezioso.

Il figliolo prodigo avrà speso tutto, ma dona a me una preziosa eredità sotto forma di un consiglio: non tutte le fami sono da colmare. È necessaria una grande saggezza per sapere a quali di esse dare soddisfazione, per non finire ad accontentarsi delle carrube. Come infatti ha sottolineato una saggia donna contemplativa, commentando questo Vangelo: “Ancora peggiori dei nostri problemi, sono le nostre soluzioni!”.

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