Commento al vangelo della III Domenica di Pasqua

Guarda i discepoli: avevano perduto la fede. Avevano perduto la speranza. 

Camminavano morti con un vivo.

Camminavano morti con la vita.

Agostino, Sermo 235

La Cena di Emmaus

Mi ha sempre colpito Cena di Emmaus di Rembrandt e la lunga gestazione che i disegni e le incisioni testimoniano dell’opera. Talvolta mostra il volto umano, ma splendente del risorto, talvolta preferisce vederlo sparire, altre volte insiste sulla traccia luminosa che il Cristo lascia quando se ne va. Si percepisce viva, nel lavoro artistico, la verità di una presenza-assenza, di «questa presenza spirituale che sfugge» (F. Bovon). Si intravede anche, però, la scoperta della risurrezione, certezza improvvisa, paradosso che dà vita, che avviene solo alla fine del cammino.

L’avvicinarsi del Risorto

Il racconto dell’apparizione di Gesù sulla via di Emmaus si struttura in modo concentrico: introduzione e conclusione iscrivono dentro se stessi il nucleo caldo e movimentato del dialogo, quello fra i discepoli soli (vv. 13-4) e quello fra i discepoli e il risorto (vv. 17-27). Nel flusso omiletico che accompagna i passi, il  καὶ ἐγένετο (kaì egéneto, «e avvenne») del v. 15 apre l’azione ad un accadimento, l’avvicinarsi del risorto che cammina insieme con loro. Il verbo πορεύομαι, «camminare», esprimeva nel vangelo della Passione la determinazione di colui che, avanzando verso Gerusalemme, si preparava ad affrontare il suo destino. Qui tocca ai discepoli andare, ma senza che ancora lo sappiano, il cammino è accompagnato: la forza che genera debolezza («i loro occhi erano forzati nel non riconoscerlo», v. 16) nei pellegrini descrive tutta la fragilità umana in cui entra la tensione divina a preparare l’epilogo.

Al cuore

Disse a loro: «Quali discorsi vi scambiate vicendevolmente, mentre camminate?».

E si fermarono tristi.

v. 17

Le prime parole pronunciate dal Cristo non riconosciuto, in forma di domanda, non provocano la gioia del ritrovarsi, ma quasi una triste sorpresa. L’aggettivo σκυθρωποί (skuthrōpoí) dice di una tristezza mista a serietà, scontentezza, turbamento come per un amore perduto, inquietudine per una gioia incrinata dal dubbio. Cleopa, allora, racconta seguendo il suo punto di vista (vv. 19-24), quello dei discepoli impermeabili al messaggio delle donne e riporta l’effetto devastante di una storia priva della sua dimensione kerygmatica, la speranza è tutta nel passato, espressa all’imperfetto (v. 21 «noi speravamo»). 

Il cuore del racconto, subito dopo la confessione di Cleopa, è abitato dalla risposta del Risorto (vv. 25-26): «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non era necessario che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». L’accusa ai discepoli verte sulla loro intelligenza (in greco è anóētoi, «privi di mente») e sul cuore (bradeîs tê kardía, «lenti di cuore»): Gesù risveglia tutto di noi, la mente e il cuore, chiamando in causa un amore che vuole tutto, perché dà tutto. Ma rimane una distanza da coprire fra due realtà che il dierméneusen (letteralmente «tradusse») al v. 27 significa: il Cristo risorto toglie dall’ambiguità le profezie e il loro compimento e chiarisce il suo proprio destino e quello degli uomini alla luce delle Scritture.

Emmaus

Dopo aver acconsentito a rimanere (v. 29) accade l’ultimo decisivo evento: il risorto pronuncia la preghiera e spezza il pane (v. 30). Allora tutto nei discepoli si apre alla rivelazione: gli occhi, l’intelligenza, il cuore adesso riconosciuto ardente (v. 32). Ma non appena i discepoli lo riconoscono, il risorto diviene áphantos, «invisibile», ma visibile, ora, con dolcezza di fuoco, nell’interiorità e nella testimonianza dei due uomini, nella Emmaus — «sorgente calda» — del cuore di ogni fedele.

Ti riconoscerò amore nel fuoco d’amore che mi hai acceso nel cuore,

in questo fuoco bruciante di luce che sfama ogni fame,

che svela il senso delle parole e della vita.

Rimarrò fedele alla meta, a Emmaus,

alla calda sorgente che il cuore sente, ma l’occhio non riesce a vedere.

Ti riconoscerò, amato-amante,

mentre entri nel giardino fiorito dell’intimo,

senza più erbacce a oscurare la luce

o rami secchi a raccogliere il caldo.

E rimarrò se rimarrai.

Elisabetta

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