Il Bastone di Mosè è una meditazione a partire dal passo biblico dell’Esodo.

“Il Signore gli disse: «Che hai in mano?». Rispose: «Un bastone». Riprese: «Gettalo a terra!». Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano e prendilo per la coda!». Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano”.

Dal racconto dell’episodio del Roveto ardente, o della rivelazione del nome di Dio a Mosè — quell’evento che potremmo considerare l’inizio del terzo quarantennio di vita di colui che vide Dio faccia a faccia — c’è una scena particolare. C’è un elemento significativo quanto trascurato che in queste poche righe che seguiranno vorremmo prendere in considerazione: il bastone di Mosè.

Cosa rappresenta il bastone? Partiamo da uno sguardo generale sulla cultura israelitica. Particolarmente nel testo biblico veterotestamentario, il bastone è un oggetto che si trova associato a diverse realtà. Dal potere, all’autorità, alla magia, ad altri ambiti spesso uniti ad eventi prodigiosi e con una sorprendente valenza polisemica. Matteh è indubbiamente il sostantivo più utilizzato, soprattutto nel Pentateuco, per indicare il bastone. Anzitutto il metteh è un bastone da viaggio (cfr. Gen. 38, 18), anche se in altri passi dei Profetici è indicato in maniera molto più simbolica come “bastone di pane” (cfr. Ez. 4, 16) ove la simbologia di Dio che spezza questo bastone è sinonimo del nutrimento che viene sottratto ad Israele.

Tuttavia, il metteh può stare ad indicare anche il “bastone di Dio, ovvero quello tenuto in mano da Mosè (cfr. Es. 4,16) nella guerra contro Amalek. Un sinonimo è spesso sebet, dal cui gioco semantico di sovrapposizione con metteh deriva il termine che in ebraico indica il bastone della forza e il ramo di vite. (cfr. Ez. 7, 10).

Ma più precisamente soffermiamoci sul bastone nelle mani di Mosè. Certamente rientra nel significato del potere e dell’autorità attribuito a metteh. E’ un simbolo tanto dell’autorità di Mosè stesso sul popolo quanto della potenza che gli veniva da Dio. Ma azzarderemmo addirittura: simbolo del monoteismo di Israele.

Foto di Benedetta Dui

Il bastone della debolezza

In Esodo 4,2 il Signore domanda a Mosè incredulo cosa avesse tra le mani e lui prontamente risponde “un bastone”. Ma quando il Signore gli dice di gettarlo a terra questo si trasforma in un serpente. Analizzando la simbologia legata a questo animale, nelle pagine veterotestamentarie, facilmente possiamo vedere come ne risulti l’allegoria della perversione razionale. Essa illude di poter competere con Dio, di giudicarne le azioni e di assurgere a divinità. Il suo potere malefico seduce e avvelena la capacità umana di pensare, con un raziocinio perverso, scaltro, che giungendo in maniera subdola, quasi improvvisa, viene mostrato come vero. Ma il serpente nella Bibbia ha anche altre valenze simboliche. Deriva delle antiche culture orientali le quali dinanzi a questo animale provavano un sentimento di fascinosa paura nei confronti del sacro.

Il fatto che il serpente cambi pelle e ne rigeneri una nuova lo rendeva simbolo dell’immortalità, della fertilità e, per la sua circospezione, di sapienza. Astarte moglie del dio Baal, nella Bibbia ricordata come Regina del cielo (Ger 7,18; 44, 18-19), in alcune immagini, era raffigurata con un serpente. Con il serpente l’agiografo mette in guardia dall’idolatria dei culti idolatrici cananei. Il re Ezechia (VIII a.c.) distrusse una statua che rappresentava un serpente. Era posta nel cortile del Tempio. E si riteneva fosse l’oggetto costruito da Mosè per guarire gli Israeliti che erano stati morsi da serpenti di fuoco (2 Re 18,4 ).

Vi erano, certamente, nella cultura cananaica che influenzò l’Israele di Dio usi magici guaritivi e pagani, legati al serpente. Potrebbe esserne un esempio il serpente di bronzo che Dio fece costruire a Mosè. Esso aveva lo scopo di salvare il popolo dai morsi velenosi dei serpenti. Forse questo evento è stato ispirato dalle tradizioni cananaiche. Certamente il serpente appeso sull’asta ricordava il seduttore per eccellenza che condusse Eva a ribellarsi a Dio, introducendo la morte.

Lo sguardo verso il serpente rivelava al peccatore la natura ingannatrice del peccato e spingeva a chiederne la liberazione e ad ottenere misericordia. La figura simbolica del serpente rappresenta allora, la seduzione che allontana da Di, la discordia che separa dal Signore. Mosè a Madian si appoggiava ad una realtà che lo allontanava da Dio. Il suo bastone era l’inganno della seduzione che in un raziocinio perverso seduce la ragione deviandola dal vero.

Il paradosso

Il secondo comando del Signore è assolutamente paradossale: afferrare il serpente per la coda. Tuttavia ognuno di noi sa che se c’è un gesto pericoloso da fare quando si è a contatto con un serpente quel gesto è proprio prenderlo, afferrarlo per la coda. Facilmente il serpente si rivolterà contro la mano che lo afferra, mordendola. Mosè lo fa. In quell’istante Mosè esprime tutto il suo abbandono, il suo affidarsi totalmente a Dio, la sua fede nel Signore che l’ha chiamato. Afferrando il serpente per la coda, sfidando il pericolo, aderendo alla richiesta paradossale di un Dio nascosto nella meraviglia soprannaturale di un fuoco che non consuma, Mosè accetta di farsi strumento per il compimento della promessa di Dio al suo popolo.

In Mosè si rende particolarmente evidente la relazione tra fede, fedeltà ed efficacia. Mosè è fedele ed efficace perché il Signore è vicino a lui, e il Signore gli è vicino perché Mosè non sfugge al suo sguardo e gli espone con sincerità i propri dubbi, i propri timori, le proprie inadeguatezze. Anche quando tutto sembra perduto, come quando il popolo da poco salvato fabbrica un vitello d’oro per adorarlo, la fiducia di Mosè nel suo Signore lo indurrà a intercedere per il popolo e il peccato si trasforma in occasione di un nuovo inizio, che dimostra con più forza la misericordia di Dio.

La fede di Mosè non si è mai spenta: lui che era nato da un evento di morte come l’uccisione dei maschi ebrei neonati, che era morto la seconda volta a quarantenni con la fuga a Madian e che ora ottantenne riceveva una richiesta assurda, mai aveva perso la sua fede nel Signore, neppure nel buio dell’esilio nel deserto.

Anche noi nella nostra fede incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche passaggi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella certezza della sua fedeltà e del suo amore.

Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni. Uscire da sé e dalle proprie sicurezze come uscì Mosè che tornò in Egitto, ove era perseguitato per aderire con fiducia al progetto del suo Signore. Mosè afferra la coda del serpente, il serpente ridivenne bastone. Questa volta però non più un bastone idolatrico, ma il bastone di Dio, il simbolo della sua presenza, della sua guida.

Ed è questo il paradosso. In Dio, nell’incontro con lui ogni nostra debolezza ed illusione può farsi certezza, forza della presenza del Signore e della sua fedeltà. La forza di Dio è la debolezza dell’uomo, Lui abita le nostre debolezze. Un vecchio uomo, poco capace e balbuziente era diventato lo strumento di Dio per compiere prodigi nel suo popolo perché Mosè aveva affidato a Dio le sue debolezze e questi ne aveva fatto la sua forza. Riflettere su questo punto fa tornare alla mente le parole di Paolo “Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi” (2Cor 4,7), ebbene Mosè è il vaso di creta che custodisce il tesoro usato dal Signore come strumento per attuare il suo disegno: il tesoro della fede.

Questo è il paradosso di un Dio fuori dagli schemi che manifesta la sua onnipotenza nella piccolezza, anche dunque nella miseria che abita ogni uomo. Potremo utilizzare e mettere a servizio il tesoro che custodiamo nel vaso di creta solo se per fede riusciamo anche ad affidarci, ad afferrare il serpente per la coda, ad aprire uno sguardo sincero su noi stessi e consegnarci rispondendo alla chiamata che il Signore ci rivolge. Ed ecco il paradosso: nella debolezza degli uomini si rivela la grandezza di Dio, il serpente ridiviene bastone, un bastone nuovo segno della potenza di Dio che cammina con l’uomo, fianco a fianco. Mosè ha confidato nel Signore, gli si è affidato e ha ricevuto in premio il bastone che da sicurezza.

Si diceva che il bastone è anche simbolo del monoteismo di Israele, si rende tale dal momento che rappresenta l’onnipotenza di Dio che si fa prossimo all’uomo nell’adempimento della sua promessa. L’unico Dio in cui l’uomo si fa beato di porre il suo compiacimento. Il bastone di Mosè è il segno tangibile, visibile della presenza di Dio che cammina in mezzo al suo popolo; Mosè afferra il serpente e in quel momento Dio mutale debolezze e le mancanze alle quali colui che parlava col Signore faccia a faccia si era appoggiato fino a quel momento, in presenza, forza, gloria. Mosè non si appoggerà più ad un bastone, ma a Dio stesso che sarà sua forza per la vita.

Cosa dice a noi il bastone di Mosè

All’uomo di oggi cosa dice quel bastone? Ci invita a porre la debolezza umana tra le mani di Dio, anzi, ci ricorda come è Dio stesso a prendere la debolezza umana e ad averla tra le sue dita. In primo luogo l’invito a riconoscere le proprie debolezze e fragilità, a non vergognarsene, a dire serenamente le stagioni della propria debolezza. Bisogna fare delle proprie debolezze lo spazio teologico in cui si manifesta il mistero pasquale, nelle quali riconosciamo la trasparenza della presenza di Dio, solo così potremmo, come Paolo, giungere a vantarci delle nostre debolezze (cfr. 2Cor. 12, 7-10).

L’evento di Mosè, anziano, stanco, poco capace e balbuziente sembra quasi farci risuonare nella mente e nel cuore le beatitudini del monte nelle quali il Signore Gesù per dieci volte ricorda ripete e ricorda che Dio si fa forza dell’umiltà e della miseria umana perché per questi il Padre fa delle sue mani il loro nido. La vicenda di Mosè pastore reietto, allontanato dal suo popolo ci fa credere e ben sperare che dinanzi a Dio non c’è grandezza maggiore di essere il nulla, come l’aria che sta davanti al sole: è trasparenza di luce. Il bastone di Mosè pone tutti, oggi, dinanzi ad una provocazione: la fragilità è provocazione, domanda, sulla speranza.

Affermava Paul Ricoeur “La speranza viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito di festa”. In questa immagine si vede una speranza che viene da altrove, viene povera e bisognosa di noi. Non ha in noi la sua origine, ma è messa nelle nostre mani: sta a noi aiutare la fragile speranza a diventare la seduttrice festosa di questa nostra epoca.

L’abito di stracci della speranza è, nella Bibbia, evocato dalla miseria in cui Dio ha scelto i suoi profeti, i suoi strumenti per la realizzazione dell’immensa promessa ad Israele. Il nostro cuore non sa cogliere la grandezza negli spazi miseri da cui il Signore riesce a ricavarla. La società di oggi ci insegna a domandare segni straordinari ad un Dio illusorio e non a riconoscere i segni semplici di un Dio reale. L’umiltà della speranza viene da un vecchio balbuziente, viene da un granello di senape, dalla miseria di cinque pani e due pesci.

Viene sottoforma di un incontro nel quale non vediamo la meraviglia di un roveto che arde ma non si consuma, ma il volto del prossimo che dovrebbe infiammare il nostro cuore, il nostro intimo di un fuoco inestinguibile. Il fuoco dell’amore di Dio che non consuma, ma ravviva, vivifica. Il bastone di Mosè richiama il mondo ad un monito inesauribile nella storia: c’è speranza per i dubitanti e i fragili! E allora non bisogna guardare alla nostra fragilità come ad un ostacolo, ma piuttosto ad una opportunità di speranza.

E infine, Mosè con il suo bastone ci dicono il bisogno di ogni uomo. Colui che parlava con Dio faccia a faccia aveva bisogno di un sostegno, aveva bisogno di una relazione, dapprima erronea con le sue fragilità intese come ostacoli, ma dopo l’incontro con il Signore, di una relazione con Dio stesso. Questo forse è il messaggio più importante che quel pezzo di legno sa dare a tutti gli uomini di oggi. Fare delle proprie fragilità lo strumento per incontrare Dio che saprà porle tra le sue dita e ricavarne una forza tale da renderci strumenti nelle sue mani. La forza di Dio è nella fragilità dell’uomo.

Prof. Cristian Lanni

Altre riflessioni e meditazioni del prof. Lanni possono essere trovate nel nostro blog Le Grain de Blé.


 

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