La musica sacra non accompagna la Liturgia. È Liturgia è un approfondimento liturgico a cura del prof. Lanni all’interno della nostra rubrica ABC Liturgico.

Dal “kyriale” del canto liturgico benedettino

La vexata quaestio

«La Liturgia senza canti diventa una monotonia di parola: il mistero grande di Dio e della Pasqua di Gesù si offre anche in una liturgia unicamente parlata, anche in un’assemblea dispersa e depressa. Ma il mistero comunica una gioia che domanda di farsi canto, musica, danza, sorrisi, abbracci. Perciò la gioia è un po’ compressa e velata quando le cautele impongono distanze, la trascuratezza non predispone un canto, l’incompetenza e l’improvvisazione diventano suoni scombinati…La pratica della musica sacra, della musica nella liturgia, del canto corale e assembleare hanno portato frutti meravigliosi di arte, spiritualità, poesia, santità» [M.E. Delpini, Cantate, Cantate al Signore! Lettera agli animatori musicali delle celebrazioni, Milano 2021]. Così, l’Arcivescovo di Milano, in una bellissima lettera sul canto liturgico, esortava gli animatori musicali e si esprimeva a riguardo della musica sacra e della sua importanza all’interno della celebrazione. Ma a questo proposito si apre una interessante riflessione su musica sacra e Liturgia: se la Liturgia ha bisogno di musica e canti per arrivare a coinvolgere le persone, è anche perché, forse, la liturgia segna certamente il passo, ma da sola, talvolta soprattutto se non correttamente celebrata, potrebbe non bastare, non reggere. Infatti, nella sua purezza, è gustabile solo da una minoranza di persone che con essa ha maturato una lunga familiarità, senza tener conto del fatto che troppo spesso neppure è rispettata nella sua ritualità. Il problema non è solo (come alcuni affermano) che gesti, parole, ritmi e linguaggi dell’attuale Liturgia sono quanto di più distante c’è dalla coscienza di un giovane d’oggi (il credente di domani) abituato ad una realtà veloce ed immediata, mai simbolica; quanto piuttosto che gesti, parole, ritmi e linguaggi dell’attuale Liturgia non favoriscono più, e spesso ostacolano, quell’incontro col Signore per il quale quei linguaggi erano stati cesellati nei secoli. Quella della Liturgia appare proprio come una vexata quaestio sempre discussa e mai completamente risolta, tutto ciò è segno della consapevolezza del valore e dell’importanza della musica nel celebrare cristiano per la partecipazione attiva dei fedeli. A tal proposito giova mettere ancor più in luce la profondità e la complessità della questione, che non può risolversi semplicemente con il suggerimento dell’uso di alcuni canti o strumenti al posto di altri.

Qualche nota del Concilio Ecumenico Vaticano II

La “scultura del Concilio” sulla porta di bronzo della Basilica di San Pietro in Vaticano

Sembra opportuno partire dal Magistero conciliare, richiamando il dettato del Vaticano II, ripreso poi nella presentazione della III edizione del Messale Romano al n.3: «Il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne […] Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica» [Sacrosanctum Concilium, 112].

La musica non è, quindi, un’aggiunta alla Liturgia semplicemente per renderla più festosa, o per coinvolgere i fedeli, per risolvere il problema della eventuale “noia” causata dalla ripetitività rituale. È parte integrante della Liturgia stessa, significando dunque che essa stessa, la musica sacra, è Liturgia. Non è qualcosa di esterno che si aggiunge al rito, ma che contribuisce alla realizzazione/manifestazione del Mistero della salvezza. La domanda che dovremmo porci è perché, a quasi sessant’anni dal Concilio, consideriamo ancora la musica come qualche cosa di esterno alla Liturgia, di accessorio, e quindi “meritevole” di poca attenzione. Anche il settore della musica sacra, dunque, è certamente segnato dai danni di una scorretta e parziale applicazione dei principi ispiratori del Concilio, spesso interpretato in maniera riduttiva o difforme. Infatti, i Padri Conciliari riconoscevano il canto gregoriano come «canto proprio» della Liturgia [Sacrosanctum Concilium, 116], pur non escludendo altre tipologie, purché rispondenti all’azione Liturgica e idonei ad essa [Sacrosanctum Concilium, 117]. Ed invece, nell’arco degli anni post conciliari si sono verificati due fenomeni: il primo, riguarda uno sforzo notevole di creazione di canti in lingua parlata per l’uso liturgico. I vari repertori ne sono eloquente testimonianza. Tuttavia, dopo un primo inizio di fedele applicazione secondo i criteri liturgici e in comunione con la Chiesa, si è intrapresa la via di una creatività continua, talvolta eccessiva, senza più considerazione dei principi liturgici e della necessaria verifica e approvazione dell’autorità della Chiesa. In tal modo sembra che oggi chiunque possa comporre musica e testi per la Liturgia e ogni comunità e gruppo esegue un ventaglio incontrollabile di canti, che, sia per la palese inabilità del testo o della musica o della loro funzione rituale, sia per la mancanza di un esplicito riconoscimento e assunzione da parte dell’autorità della Chiesa, non possono dirsi propriamente liturgici. Il secondo riguarda più da vicino la pastorale liturgica post conciliare, dove si è operata di fatto una scelta di parte: si è considerato solo il canto popolare religioso [Scrosanctum Concilium, 118] tacendo quasi totalmente sul canto gregoriano e sulla polifonia classica [Scrosanctum Concilium, 116]. Anche la pubblicazione del Graduale simplex, ad uso delle chiese minori [Scrosanctum Concilium, 117] «allo scopo di ottenere più efficacemente una partecipazione attiva di tutto il popolo nelle sacre azioni celebrate in canto» [Sacra Congregazione dei Riti, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, vol. II, n. 1677], – libro liturgico di nuova creazione – non ha sortito nessun significativo stabile ricorso all’uso del canto gregoriano nelle normali assemblee parrocchiali. Le nuove generazioni si sono così trovate a realizzare il prodotto recente delle ultime trovate e il loro orizzonte è costretto all’asfissia dell’istante momentaneo e del locale. Occorre ritornare al Concilio vero e integrale. Non è pensabile espletare la funzione della musica sacra all’interno della Liturgia riducendosi all’esecuzione della sola musica d’uso in una estenuante girandola di continue variazioni. Essa deve essere capace di proporre all’assemblea cristiana il canto gregoriano nelle sue principali espressioni, sia quello sillabico della cantillatio e dei salmi, sia quello melismatico degli inni e degli altri testi liturgici. Il Novus Ordo Missae, d’altronde, è stato riformato in totale continuità con l’Ordo precedente. Infatti rimangono inalterati nel testo e nella loro posizione rituale i canti classici dell’ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi quindi possono e devono poter essere riproposti secondo le modalità gregoriane e polifoniche di sempre. Nessuna parte del rito precedente è stata estromessa o cancellata, ma tutto coincide e questo perché nella mente della Chiesa non si doveva (e non si deve!) in nulla sacrificare il patrimonio musicale dei secoli codificato nel Graduale Romano, che deve essere tenuto «in sommo onore nella Chiesa per le sue meravigliose espressioni d’arte e di pietà” e deve conservare “integro il suo valore» [Sacra Congregazione dei Riti, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, , vol. II, n. 1677]. Non è necessario allora ricorrere alla forma precedente del Messale per recuperare il canto sacro classico, ma esso è in piena conformità col Messale riformato dal Vaticano II. Questo fatto, nonostante i continui richiami del Magistero della Chiesa, è stato disatteso per decenni e ancor oggi con grande sospetto ci si apre a questa prospettiva. La composizione equilibrata tra “antico” e “moderno”, qualora questi termini si volessero utilizzare, dunque, deve ispirare la ricerca e la prassi liturgica, senza elidere alcuno dei due termini. Ecclesia est semper reformanda, ma per riformare non si può cancellare il passato. Per le grandi composizioni polifoniche si dovrà tuttavia tener sempre presente il principio per il quale «è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la Liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della Liturgia e sua umile ancella» [Pio X, Motu proprio: Tra le sollecitudini, n. 23]. Occorre perciò che il solenne principio conciliare – La Musica sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera o favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri [Sacrosanctum Concilium, 112] – sia debitamente osservato. Alla luce di queste parole il canto gregoriano allora non è soltanto un corpus prezioso di canti accanto ad altri generi di musica sacra, ma, secondo la ratio della Chiesa latina, ne è il referente e la base interiore che deve costituire l’anima per ogni musica autenticamente sacra e liturgica. Dobbiamo convenire che oggi nella realtà quotidiana delle nostre parrocchie non è facile impostare questo ragionamento. Tuttavia se si vuole una vera ed efficace verifica nel campo della musica liturgica si deve serenamente affrontare quello che in realtà è il pensiero ufficiale della Chiesa e il tenore dei suoi documenti.

Un’armonia che favorisca e formi

Organi della Basilica di Santa Maria della Passione, Arcidiocesi di Milano

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, dunque, mette in luce come la santità della musica dipenda dalla relazione con l’azione liturgica, cioè come i canti, le melodie, ogni intervento cantato debba divenire elemento integrante e autentico della celebrazione. Infatti, è di fondamentale importanza l’armonia tra i diversi linguaggi liturgici: musica, parola e gesto i quali dovrebbero sostenersi a vicenda, suscitando i medesimi pensieri e sentimenti. La musica deve aderire ai testi, essere in consonanza con il tempo e il momento liturgico, corrispondere ai gesti liturgici. «I vari momenti liturgici esigono, infatti, una propria espressione musicale, atta di volta in volta a far emergere la natura propria di un determinato rito, ora proclamando le meraviglie di Dio, ora manifestando sentimenti di lode, di supplica o anche di mestizia per l’esperienza dell’umano dolore, un’esperienza tuttavia che la fede apre alla prospettiva della speranza cristiana». [Giovanni Paolo II, Chirografo per il centenario del Motu proprio “Tra le sollecitudini”, n. 5]. Per questo motivo bisogna anche guardarsi da quei canti eccessivamente invadenti o emotivamente troppo carichi, che invece di favorire la preghiera, allontanano dal senso del gesto a cui dovrebbero corrispondere. Per questa ragione risulta  di fondamentale importanza considerare come la musica porti con sé i contesti in cui viene ascoltata; le melodie utilizzate nella Liturgia e soprattutto il modo con cui vengono eseguite, non devono richiamare esperienze lontane dall’orizzonte liturgico nel quale si inseriscono e del quale sono parte integrante. I canti e la musica nella Liturgia, relativamente ai testi, alle melodie, alla modalità esecutiva devono mantenere una differenza rispetto all’utilizzo della musica in altri contesti, pur non significando, questo, che non debbano intercettare la sensibilità culturale ed ecclesiale dei fedeli. Pensiamo al modo di cantare il salmo responsoriale: la voce non deve essere impostata come nella lirica, deve essere modulata in modo da servire la Parola, per favorire la meditazione dei fedeli e non per mostrare le doti del salmista, che è strumento e non protagonista. 

Dunque, ridare attenzione alla musica per la Liturgia significa non cedere alla tentazione dei risultati immediati, scegliendo quello che piace di più o che sembra coinvolgere maggiormente al momento, ma percorrere la via lunga della formazione liturgica musicale inserita nel solco della Tradizione della Chiesa che comunque, nel suo animo di comunità semper reformanda, guarda alla storia e al tempo presente. Non è dunque scorretto pensare che l’assenza delle giovani generazioni (e non solo) alla celebrazione eucaristica è dovuta, oltre al contesto in cui viviamo, anche alla presenza troppo marginale di una solida formazione liturgica e liturgico – musicale nei cammini di iniziazione cristiana e nella pastorale giovanile. Non si entra nella Liturgia cambiandola a nostra immagine e somiglianza, lasciandoci guidare nella scelta dei canti dal criterio del “mi piace” o “non mi piace”, ma attraverso una educazione graduale e progressiva alla Liturgia stessa. Spesso, infatti, nell’illusione di sostenere la partecipazione dei fedeli, ci si orienta verso musiche e testi banali; ma la Liturgia richiede una musica che sia una vera e propria arte, perché solo così potrà esprimere il Mistero che si celebra. Diversamente si corre il rischio di banalizzare Dio stesso. Questo non significa che dobbiamo assumere un repertorio complesso, difficile, che non intercetti la sensibilità culturale ed ecclesiale dei fedeli, anche questo sarebbe un grave errore. Sono molte, infatti le composizioni liturgiche contemporanee semplici, adatte alle nostre assemblee, alla capacità degli strumentisti, dei coristi, ma che allo stesso tempo possiedono il senso della preghiera, della dignità e della bellezza [cfr. Paolo VI, Discorso ai partecipanti all’assemblea generale dell’Associazione Italiana Santa Cecilia, 18 settembre 1968, in Insegnamenti VI, 1968, 479].

Ecco dunque che, come Papa Francesco ricorda, non avremo una una musica qualunque, ma una musica santa, perché santi sono i riti; dotata della nobiltà dell’arte, perché a Dio si deve dare il meglio; universale, perché tutti possano comprendere e celebrare. Soprattutto, ben distinta e diversa da quella usata per altri scopi.

prof. Cristian Lanni

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