Nell’ultimo articolo abbiamo visto come San Benedetto dedichi la sua Regola alla “fortissima specie dei cenobiti” (RB 2,9) escludendo gli eremiti, i sarabaiti e i girovaghi. Il cenobio o la comunità monastica, per San Benedetto, è una società con una “legge“, la Regola, ma anche con un forte bisogno di un “capo” o “guida” che è il cuore del monastero, l’abate.

Nella regola troveremo due capitoli dedicati proprio all’Abate: il cap. 2 dove è presentata la figura dell’abate nella sua dimensione spirituale e il cap. 64 dove é esposta la parte giuridica riguardo all’elezione dello stesso.

Nel testo della Regola sono presenti diffusamente sia questa figura sia i suoi compiti: l’abate sceglie il priore (RB 65,11) e il cellerario (RB31,1). È ancora l’abate che si prende cura degli scomunicati (RB 27-28) e che può cambiare l’ordine della comunità, stabilire la misura dei cibi e delle bevande. Nella liturgia, inoltre, è l’abate che ricopre i ruoli più importanti. Si potrebbe continuare all’infinito nella ricerca, all’interno Regola, dei riferimenti alla figura dell’abate ma non è questo lo scopo dell’articolo.

La figura dell’abate nella regola benedettina dopo il Concilio Vaticano II è stata molto studiata e molto discussa, infatti si è voluto sottolineare l’aspetto della “sinodalità” anche per evitare derive dittatoriali e per una maggiore democraticità e maggiore responsabilizzazione dei monaci tutti. In questo Concilio, inoltre, l’abate è stata paragonato al superiore di una comunità religiosa.

Le immagini per l’abate

Come però si può definire l’abate? Con quali ‘immagini” egli è descritto?

Iniziamo a rispondere a questa domanda prendendo spunto da due immagini:

  1. L’anziano: cioè di colui che è dotato di una provata esperienza e anche di doni spirituali. Un anziano sa avviare un discepolo alla vita monastica e sa anche dirigerlo come un padre. Questa definizione è conosciuta dagli Apoftegmi (detti dei Padri del deserto) e dalle Collezioni di San Cassiano. In quest’ultima opera possiamo notare come l’anziano e il discepolo vengono “legati” dalla parola e dall’esempio del maggiore; solo così il giovane cresce e può diventare a sua volta un maestro per gli altri.
  2. La figura del superiore nella tradizione pacomiana, che si concentra sul rapporto di “koinonia” (condivisione) tra i membri e il superiore. Praticamente la funzione abbaziale, o del superiore, è un rapporto di servizio reso alla comunità.

Queste immagini sono le due principali ma, guardando alla storia della Chiesa, possiamo scorgere anche altre immagini dell’abate, ad esempio: nel medioevo l’abate era considerato un signorotto ma anche un garante dell’obbedienza nel campo giuridico oppure un abate-padre della famiglia monastica. Queste immagini sono tutte valide per scoprire meglio questa figura.

Quale etimologia?


Per comprendere però chi sia veramente l’abate e quali responsabilità abbia all’interno di un cenobio occorre leggere il cap. 2 della Regola.

La prima parola di questo capitolo attira subito la nostra attenzione sul significato etimologico della parola ‘abate’, essa può essere anche definita come un programma di vita. Chiamando il superiore “abbas”, San Benedetto non aggiunge nulla di nuovo al già noto; in aramaico – infatti – la parola è resa con “abba” che significa padre e nella Sacra Scrittura, in particolare nel Nuovo Testamento, essa si applica solo a Dio ed è Gesù che lo pronuncia.

La domanda, allora, sorge spontanea: perché é possibile applicare tale appellativo divino anche ad un uomo? La risposta è molto semplice, ed è possibile giustificarla sul piano religioso affermando che il nome “abbà” è utilizzato per rendere omaggio all’unica paternità di Dio che quest’uomo rappresenta all’interno della comunità. Inoltre, come sappiamo, l’evoluzione delle parole nel tempo possono modificarne anche il significato: la parola ‘abba’ in Egitto non aveva un’accezione afferente alla dimensione del governo ma semplicemente il termine era un titolo onorifico indicante il padre spirituale e cioè una persona che esercitava la paternità di Dio nel deserto. Pian piano la parola si trasforma e diventa un titolo onorifico o un titolo di governo fino ad arrivare nel IV secolo in cui il termine “abbas-abate” si impone sugli altri e designando così con tale termine il superiore di una comunità monastica.

Le responsabilità dell’abate

La responsabilità dell’abate nella regola di San Benedetto è chiara: San Benedetto vuole che l’abate sia consapevole di ciò che comporta il suo nome. Per il Santo Patriarca il termine abate non richiama il concetto pacomiano di uomo carismatico, di anziano, bensì quello di colui che “fa in monastero le veci di Cristo”. Questa è la responsabilità ed è il principio fondamentale della regola, che conferisce alla stessa una connotazione cristologica.

Cosa significa fare le veci di Cristo in monastero? Per rispondere a questo quesito, San Benedetto rimanda ad un’altra regola, quella “del maestro”: l’abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo, cioè appartiene alla categoria dei ministri posti da Cristo a capo degli Chiesa. Come il vescovo governa la Chiesa a lui affidata, così l’abate governa solamente una “schola” di Cristo, cioè un monastero.

Un altro parallelismo che pone in paragone la figura dell’abate con quella del vescovo riguarda le figure degli assistenti: così come il pastore della Chiesa locale è coadiuvato dai presbiteri, diaconi e chierici, così l’abate si fa aiutare dai decani. Un parallelismo, questo, che si basa sui testi sacri, per esempio “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,17); “Chi ascolta voi, ascolta me ” (Lc 10,16).

Abbiamo sin qui solo trattato in sintesi e velocemente questa figura. Possiamo però concludere che l’abate è un padre in mezzo alla “schola” ma è anche Cristo che si fa vivo e presente in mezzo al suo gregge e quando si presenterà davanti al cospetto del giudice supremo dovrà rendere conto del suo operato, come dovremmo rendere conto ognuno di noi del nostro servizio in mezzo ai fratelli.

Quaesitor Dei

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