Commento al vangelo della III Domenica di Avvento

Attesa appartenenza

Si dice che sia la maternità l’esperienza più radicale e intensa dell’attesa. Da un lato perché – afferma Recalcati – essa mostra «come l’attesa non sia mai padrona di ciò che attende», sempre ferita e «attraversata da un’incognita», dalla differenza a volte incolmabile tra la proiezione dell’aspettativa e la realtà concreta di ciò che si attende; dall’altro, perché la maternità manifesta chiaramente quella capacità creatrice e modellante dell’attesa, il suo deformare e riformare tutto, dal corpo allo spazio, dal tempo alle relazioni, dalle realtà più banali e feriali fino alle visioni del mondo e della vita. Perché, lo si voglia o meno, se l’attesa è vera e autentica, essa si fonda sulla totale appartenenza a ciò di cui siamo in attesa. Come se quello che aspettiamo non solo ci precede, quasi non ci fosse stato un prima, ma anche ci fonda, ci origina e ci orienta.

È anche l’esperienza dell’amore, in ogni sua forma. E della nostra relazione al futuro, al suo status vergineo e incerto di promessa, desiderio, sogno. Se l’attesa del futuro ci delude forse è perché più che aspettare l’altro da noi, attendiamo solo noi stessi, solo quello che le nostre proiezioni e aspettative partoriscono, e principalmente sulla base del passato o dell’analogia con gli altri. Invece, l’altro da noi è sempre oltre, sempre altro appunto, sempre riconfigurante.

Attesa enigma

Il Vangelo di questa terza domenica d’Avvento, domenica di gioia, ma anche domenica di domande, ci mette davanti in Giovanni Battista il grande enigma dell’attesa. Il preparatore di strade, riconosciuto come tale dallo stesso Gesù, sembra aver smarrito il senso della sua azione. Anche lui aveva delle attese messianiche, una visione dell’Atteso, che sembra smentita da quell’Agnello di Dio che pur aveva additato. Forse lo scarto, apparentemente incomprensibile, tra le multiformi promesse profetiche e la realtà concreta di quel suo parente, che non sta ripulendo l’aia con la sua pala, né realizzando un invocato giudizio messianico. Forse la delusione, la fatica, l’arresto, la prova, lo sconforto. Eppure non si arrende. Manda a chiedere, in maniera precisa, puntuale: Sei tu il Cristo?

Come sempre avere la domanda è più che avere la risposta se non si è capaci di lasciarsi riconfigurare da quella risposta. E così Giovanni si trova spiazzato da quello che Gesù gli manda a dire: i ciechi sono inondati di luce, gli zoppi danzano, i sordi cantano, la gioia è portata ai poveri e agli sfiduciati. Proprio sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi di Giovanni, stanno fiorendo attese millenarie, semi di liberazione apparentemente più deboli e timidi, ma più forti di liberazioni politiche o giudizi escatologici. Proprio lì, sotto gli occhi di tutti. Nelle pieghe del quotidiano. Solo chi non si scandalizza può vederli, solo chi non attende sé stesso può aprirsi al Messia, al suo irrompere sempre irriducibilmente oltre, sempre inafferrabilmente altro e sorprendente. Solo chi è disposto a deporre armi, ideologie, pregiudizi, prigioni a volte più ferree delle catene per il Vangelo.

Attesa in sinodo

L’Avvento è il grande tempo che ci invita a vagliare le nostre attese. Cosa aspetto? Chi aspetto? Cosa di me attendo in quello che credo di aspettare? Cosa mi attendo dagli altri? E ancora quale Messia attendo? Quale Salvatore? Quale Chiesa? E sono domande le cui risposte non si possono trovare da soli. Come per Maria che corse da Elisabetta, per Giovanni e i suoi discepoli che vanno da Gesù, per i magi che interrogano le stelle, gli scribi, la Scrittura e perfino Erode, le risposte si possono trovare solo insieme. Ci vuole sinodalità. Anzi, come ci ricorda la seconda parte del vangelo, siamo chiamati a sostenere e preparare le attese degli altri, facilitare l’incontro tra le legittime e atematiche attese di Dio, di cui questo mondo famelicamente pullula senza saperlo, e la sua promessa infinitamente grande, infinitamente sorprendente di esserci, di venire, di colmare ogni vuoto che l’attesa – sia essa giusta o meno – scava in ognuno, a volte con la facies proiettiva del desiderio, a volte con quella lancinante della nostalgia e della mancanza. 

Tocca a noi rovesciare queste attese, perché Lui già c’è e dobbiamo tendere a Lui, trovarlo, scovarlo, farlo vedere dove fiorisce la vita, dove il deserto della malattia si trasforma in un’autostrada di speranza, dove l’aridità delle relazioni ferite sboccia con dolore in nuove capacità di comprensione e accoglienza dell’altro, dove gli occhi chiusi dall’odio e dall’egoismo finalmente si aprono sul miracolo dell’altro e si convertono in purificanti torrenti di lacrime, dove le gambe della disperazione riescono a trasformarsi in passi di danza, dove la morte e il dolore non uccidono la bellezza. Lì Dio c’è e attende.

Attesa Avvento

E noi dobbiamo farlo vedere. Sennò rischiamo di rimanere fuori proprio noi, che forse siamo i Giovanni Battista di questo tempo. Rischiamo di avere preparato una strada di cui non ci siamo giovati. Sennò rischiamo, come il Virgilio di Dante, di aver acceso una lanterna, ma dietro le nostre spalle. Perché non abbiamo voluto lasciarci configurare, plasmare e partorire dall’Atteso, sempre al di là di ogni nostra attesa. Sempre più concreto, vitale e reale di noi. Perché l’attesa dell’Avvento è come la maternità. Alla fine arriva un figlio che è totalmente diverso da quello che ci saremmo aspettati, eppure cambia tutto. Perché l’attesa dell’Avvento è come un parto. Solo che a essere partoriti siamo noi. Dall’alto, dall’altro, dall’Altro, da Colui che attendiamo e ci attende… e già c’è.

Francesco Pacia

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