Se mi avessero chiesto, a tavolino, se pregare e rubare fossero sinonimi o contrari, non avrei esitato, avrei risposto, quasi indignato: “Sono – ovviamente – contrari!”.

Invece nelle nostre povere esistenze non sempre questa chiarezza etimologica viene a galla, anzi spesso l’essere ha la meglio sul dover essere: la preghiera dovrebbe essere lo spazio dell’amicizia, della relazione, della gratuità; invece – a volte – è lo spazio della pretesa, della lotta, delle bugie, del contratto e forse anche del furto. Perché è dal “giorno” del peccato originale che dentro di noi c’è questa smodata sete di prendere, che è una delle radici del peccato: prendere, pretendere senza sosta.

Nel Vangelo di oggi la rabbia del Signore – ad essere corretti – non è diretta verso chi prega, bensì verso i venditori del Tempio ma a ben vedere l’uno non esclude l’altro, occorre “ascoltare” le nostre preghiere e la nostra preghiera per capire cosa vi sia dentro, cosa nutre la nostra relazione con Dio: una pretesa smodata di “prendere” oppure una placida fiducia di un bambino svezzato in braccio a sua madre, come ci disegna il salmo 131, che viene tradotto così da Turoldo nell’edizione da lui curata dei Salmi: “Tranquillo e sereno mi sento, un bimbo in braccio a sua madre, un bimbo svezzato è il mio cuore?”

Paride

Altri contributi relativi alla parola di Dio sono all’interno della nostra rubrica Lievito nella pasta: https://www.legraindeble.it/categorie/lievito-nella-pasta/

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