La piccola eternità dell’universo nella poesia di Mandel’štam

Senza addentrarsi oltre

Riprendiamo con questo articolo i fili della poesia, lasciata qualche settimana fa con Spari di Mario Luzi (per rileggerla clicca qui) e parleremo di una nuova figura poetica: Osip Ėmil’evič Mandel’štam, letterato russo del primo Novecento (per informazioni sulla biografia, clicca qui). Nove delle undici Ottave, raccolta poetica da cui trarremo la poesia di oggi, sono datate «novembre 1933»: Osip Ėmil’evič e la moglie avevano un tetto non precario dopo anni di randagia a seguito della persecuzione politica; nella semi-tranquillità del presente in cui era immerso, il poeta poté scrivere quelle che lui definiva «poesie sulla conoscenza, senza addentrarsi oltre», a pochi mesi dall’arresto che lo portò alla morte.

Da aghiformi calici appestati
beviamo l’ossessione delle cause,
con uncini tocchiamo grandezze
infime, quasi leggera morte.

E di fronte al groviglio delle asticelle
il bambino resta in silenzio —
dorme, l’universo, nella culla
della piccola eternità.

Shangai

Agli occhi del poeta il mondo gioca a Shangai. Si tira fuori, a caso, una minuscola legge logica, una grandezza infinitamente piccola rispetto a tutto ciò che l’«ossessione delle cause» non permette di conoscere. La causalità che l’uomo conosce è solo un elemento estratto a caso da una montagna di elementi identici. Solo il bambino riesce a capire quell’insieme sistematicamente frazionato dai principi troppo umani degli adulti, ma non sa come cavarsela con tutto il groviglio. L’unica goccia-frammento di realtà che può quasi essere compresa proviene dai calici appestati.

Quasi leggera morte

I sottilissimi calici a forma di ago contengono la risposta ai perché dell’uomo. Attraverso questa immagine sembra di tornare indietro ai primi giorni della creazione, all’intoccabile albero della conoscenza e a quel letale tocco umano che rese appestato l’universo, macchiato per sempre di colpa e di morte. Chiunque si avvicini al calice e desideri bere la vera conoscenza delle cose è destinato a morire. In questo senso, la conoscenza derivata dall’«ossessione delle cause» e che tocca le «grandezze infime» dell’universo comprensibile è per il poeta, inevitabilmente, quasi leggera morte.

Il bambino

L’immagine del bambino è molto presente nella tarda lirica mandel’štamiana. È immagine dello spazio assonnato, dell’universo che dorme nella culla dell’eternità e ha sempre a che vedere con tempo, creazione, infinito, innocenza. Il silenzio di fronte all’inestricabile viluppo dei bastoncini è stupore nei confronti di una realtà che non è dato risolvere con il ragionamento, la logica della causa-effetto. In una società che celebra il radioso domani dell’umanità e tutto immola sull’altare del futuro, Mandel’štam si trasporta nel passato. Procede verso un tempo senza data in cui lo spazio si stropiccia gli occhi, dove il sussurro è già poesia e il vuoto contiene già la forma. In un varco spazio temporale in cui si vive e ci si stupisce solo dell’eternità-tutto.

Elisabetta

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