Re perché Dio; Re perché uomo è un approfondimento liturgico a cura del prof. Lanni Cristian, presente nella nostra rubrica ABC Liturgico.
La decisione di spostare la Solennità di Cristo Re all’ultima domenica dell’Anno Liturgico, vuole rappresentare un aspetto escatologico.
Si può notare anche nelle precedenti riflessioni, https://www.legraindeble.it/re-perche-dio-re-perche-uomo/
La regalità “disconosciuta”
L’enciclica Quas Primas, del 11 dicembre 1925, ritiene che la scelta di celebrare la Solennità di Cristo Re nella domenica precedente alla festa di Tutti i Santi, sia significativa. Questo giorno, essendo vicino alla fine dell’Anno Liturgico, permette di dare un coronamento ai misteri della vita di Cristo. Essendo anche la domenica che precede la festa di Tutti i Santi, si mette in risalto e si celebra “la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”.
Tuttavia, già nel 1950 si cominciò a riflettere circa l’opportunità di spostare questa solennità al termine dell’Anno Liturgico;. Successivamente, il Consilium [7] a sottolineare l’opportunità dello spostamento, proprio in ragione di una maggiore marcatura escatologica che la Chiesa intende in questo speciale titolo attribuito al suo Signore.
La collocazione terminale ha senso, laddove si va a leggere nel complesso dell’Anno Liturgico stesso. La regalità divina e sociale di Cristo – si assomma al valore universale ed escatologico della Sua regalità.
La collocazione all’ultima domenica lancia già lo sguardo sull’Avvento, attesa del ritorno del Signore Gesù nella gloria e memoriale della Sua prima venuta. Il Coetus che si occupò della riforma non fece altro che tradurre liturgicamente quanto espresso da Pio XI nell’Enciclica Quas primas. Secondo il Pontefice, la celebrazione della festa avrebbe richiamato «al pensiero di tutti che la Chiesa […] richiede per diritto proprio, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero d’insegnare, di reggere e di condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio».
a) Un corretto intendimento
Si tratta di non negare la regalità sociale di Cristo, ma di comprenderla correttamente, evitando di inserirla in contesti di confessionalità statale ormai superati. È piuttosto un invito, a riconoscere l’impossibilità di un sistema che si basi esclusivamente sull’autonomia umana nella costruzione della vita collettiva. Senza considerare una base etica, ancor prima che una morale specifica.
In quella che più semplicisticamente si chiama dottrina sociale della regalità di Cristo [8], appaiono velati dei riferimenti – addirittura – alla figura di Costantino.
Verso la fine del XIX secolo nasce la dottrina della regalità sociale, che Pio XI in parte sostiene. Cerca un governo che unisca potere spirituale e temporale nella societas christiana.
Durante il Novecento, l’associazione tra Costantino e l’ideale regale è celebrata, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale alcuni movimenti cattolici ridimensionano il ruolo di Costantino.
Ne criticano il modo in cui il concetto del regno di Cristo nella Chiesa apostolica è stato travisato. Questo concetto è stato talvolta utilizzato per adattare gli ordinamenti sociali alla diffusione del Cristianesimo o per favorire il potere ecclesiastico.
Agli inizi del XX secolo la dottrina della regalità sociale trova un nuovo, quanto importanate, sostenitore in Pio X. Sotto il suo pontificato , si registra un intensificarsi delle richieste di istituzione di un atto liturgico volto a compattare spiritualmente i credenti nell’impegno a conseguire un ordinamento di tipo ierocratico e si diffondono in maniera crescente pratiche come l’incoronazione e l’intronizzazione dell’immagine del Sacro Cuore nelle famiglie, atti devozionali legati alla diffusione dell’ideologia della regalità sociale nell’ambiente familiare, considerato la cellula fondamentale della società [11].
La politicizzazione della liturgia e l’orientamento a incidere nel tessuto della famiglia , non favoriscono i riferimenti a Costantino, presenti, tuttavia, in scritti di natura storica e in commemorazioni di eventi costantiniani. Il rapporto tra Costantino e la dottrina della regalità sociale si esprime in relazione alla visione progressiva della storia presente in ambito cattolico. Il tema della regalità penetra nell’impostazione che s’intende dare a pubblicazioni con pretese scientifiche, in cui viene recepita la ridefinizione semantica del tema dell’‘impero. Tema presente tanto nella cultura intransigente quanto nel magistero pontificio, che teorizza la pretesa di potere di Cristo su tutte le società, comprese quelle che non conoscono il messaggio cristiano [12].
La dottrina della regalità
Indubbiamente il rilancio di tale dottrina sulla regalità è dato da Papa Ratti, nell’immediato dopoguerra. D’altro canto, l’Enciclica per così dire, programmatica del Pontefice ambrosiano, la Ubi arcano [13], pone come linea del pontificato quella di una società completamente cristiana, in cui Cristo regni su ogni aspetto della vita umana.
All’interno di questo nuovo orientamento, che mira a evidenziare con chiarezza i mezzi giuridico-politici su cui deve costruirsi il regno sociale di Cristo, il personaggio di Costantino è citato, secondo una consolidata lettura teologica della storia, come l’avvio del regno sociale di Cristo. Si offre così un’interpretazione che parzialmente penetra tanto nella produzione omiletica quanto nella trattatistica volta a divulgare il concetto della regalità.
Un Re al contrario
La Liturgia della Solennità di Cristo Re – tanto in Rito Ambrosiano che in Rito Romano – chiosa splendidamente il discorso sulla Regalità del Signore Gesù, utilizzando il brano evangelico giovanneo dell’interrogatorio di Pilato.
Il Re si trova al cospetto della più alta carica dell’Impero, nella Sua terra, il Governatore della Provincia romana di Palestina. Pilato esprime tutta la sua sorpresa. L’uomo che si trova davanti non ha nulla del malfattore che gli hanno detto essere Gesù, non ha nulla del pericoloso rivoluzionario che lui ha mandato ad arrestare, si trova di fronte a una persona che lo sconcerta.
Un processo al contrario
È un processo strano questo. È un processo dove non è tanto il giudice a fare le domande all’imputato, ma l’imputato che fa le domande al giudice e la sentenza non sarà emessa da giudice ma dall’imputato. Infatti Gesù non risponde, ma fa a sua volta una domanda a Pilato. “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?” Gesù lo invita a ragionare con la propria testa e non sotto l’influsso di quello che gli hanno detto le autorità religiose. Pilato reagisce con sdegno: “Sono io forse Giudeo?” Pilato disprezzava la regione che doveva governare e qui esprime tutto il suo disprezzo, il suo sdegno.
Tuttavia, ciò che interessa al nostro discorso è il versetto 38, dove Pilano dice con tono sarcastico: “che cos’è [la] verità?”. Non deve sfuggire che questa domanda ironica e demolitiva di Pilato è rafforzata proprio dalla omissione dell’articolo “la” davanti a “verità” che invece viene introdotto nelle versioni in lingua italiana. Nel testo originale greco non c’è l’articolo ed è detto semplicemente “τί ἐστιν ἀλήθεια;” cioè “che cos’è verità”.
Non si tratta di una sfumatura o di puro stile linguistico, ma di significato sostanziale. Pilato non entra nel merito dell’asserzione fatta da Gesù, la verità che proclama, ma lo azzittisce sradicando la nozione stessa di verità e quindi la possibilità che ne esista una.
La verità
Se è vero tutto quanto fin ora detto, la Regalità di Cristo è signoria della verità – rivelata da Dio stesso nel Figlio – attraverso l’amore; dunque la verità è un concetto che veicola la nostra stessa ragione d’essere.
Tutto il senso del nostro esistere gira intorno alla verità, la insegue, crede di possederla, la cattura come una preda, gli scivola di mano, la smarrisce e ricomincia da capo in un circuito senza interruzione.
Analizzando il termine “ἀλήθεια” (alétheia) ne comprendiamo meglio il senso. Si tratta di una parola composta dal prefisso alfa “α”, detto privativo, e dal verbo “λανθάνω” (lantháno), da cui deriva “latente”, “latitante” ecc, che significa nascondere, coprire. Quindi per i greci la verità è ciò che non resta “latente” e si svela, si impone con il ragionamento, l’investigazione. Ciò che appare nell’atto di svelare, la “alétheia”, è tutt’altro che apparenza. Svelare non è semplicemente apparire, sembrare. Un noto proverbio dice sapientemente “l’apparenza inganna”. In greco si ricorre al termine “δόξα” (dóxa) per indicare l’apparenza, in stretta derivazione dal verbo δοκέω (dokéo) che significa “sembrare”.
Il senso di doxà
Il senso di “dóxa”, per esempio, nasce dall’ammirazione che l’eroe o il sapiente suscitavano apparendo nella gloria, nella fama e nello splendore, ma questo apparire, questa “dóxa” genera opinione, fama, che è cosa ben diversa dalla verità (alétheia). Sia “alétheia” che “dóxa” implicano l’atto del disvelare, dell’apparire. Tuttavia l’opinione pur fondandosi anch’essa sull’apparire, sul mettersi in luce che genera fama, è solo una congettura che può portare a conclusioni vere come false. Alla “dóxa” come apparenza può imporsi la “alétheia” come verità, cioè come operazione di disvelamento di qualcosa che non esiste per rimanere nascosto. Nella “dóxa” i concetti di apparenza e opinione si intersecano, l’apparenza genera opinione che su di essa si fonda mostrando il carattere della mutevolezza propria di ciò che appare.
L’opinione come congettura, è un’ipotesi, un atto del presumere, “rei incertae probabilis coniectura”, come dicono i giuristi a proposito di presunzione giuridica, benché sempre inscritto nel quadro di un procedimento logico induttivo che cerca di risalire da fatti certi alla dimostrazione di un fatto incerto o controverso che potrà avere conclusioni tanto vere quanto false. La verità “a-létheia”, al contrario della “dóxa”, è ciò che non può rimanere nascosto e mostrandosi si impone trovando in sé l’autorevolezza che gli conferisce credibilità.
Una regalità al contrario
La parola “verità”, nel senso di “a-létheia” intesa come “evidenza”, significa anche “ciò che sta sopra”, “επιστήμη” (epí-stéme) e per questo non ha bisogno di appoggiarsi all’autorevole parola di chi la esprime magari ricorrendo al linguaggio retorico della persuasione. La “epistéme” si impone per la sua evidenza senza poter essere messa in discussione o contraddetta Questa accezione originaria del termine greco “epí-stéme” è transitata nella lingua latina che la traduce con il vocabolo “scientia” con chiara perdita di significato.
La verità proclamata da Gesù è alétheia, cioè quanto viene rivelato, svelato, che non rimane nascosto, legato alla sua stessa persona. La verità nel senso pregnante di alétheia si ritrova nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni: “E la Parola si fece carne e venne ad abitare fra di noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” […]. Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo [14].
Si comprende, dunque, che la regalità di Cristo – inscindibilmente connessa alla verità – è “al contrario” rispetto al nostro concetto. Gesù accetta il titolo, rispondendo «Tu lo dici: Io sono re», ma allo stesso tempo nega il significato che Pilato vuole attribuirgli, per insistere invece sulla sua speciale regalità. Gesù si rifiuta di incarnare un messianismo terreno, come quello evocato già nelle tentazioni nel deserto, in particolare nella versione lucana della prova: «Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo”» [15].
La regalità di Cristo è al di sopra di ogni regalità terrena perché giunge a sacrificarsi per liberare il popolo dal pericolo assoluto: la morte, e giunge a farlo per amore. Infatti l’unica corona che cingerà il suo capo sarà una dolorosa corona di spine. Ed ecco il punto: il regno di verità di cui Cristo è sovrano, altri non si esprime se non nell’amore. Il regno proclamato da Cristo dinanzi a Pilato si trova nell’attrattiva salvifica del legno della croce.
Il Regno è “qui”
“Il mio regno non è di questo mondo”, risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: “Il mio regno non è di qui” (Gv 18,36).https://www.laparola.net/testop.php?riferimento=Gv%2018%2C36-38&versioni[]=C.E.I.
Le due espressioni «mondo» e «qui» gravitano dalla stessa parte. è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” [16]. Il mondo è amato da Dio eppure odia Gesù, “perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive” [17].
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna…); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine. Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che “il mio regno non è di qui” perché è “altrove”, come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: “Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra – una specie di «uno di qui e uno di qua» – e Gesù in mezzo” [18].
Il Regno è sulla Croce
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto; il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire” [19].
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: “Tu lo dici, io sono re”. Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei” sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. “Quel che ho scritto ho scritto” [20] è una specie di definitivo sigillo posto al “Tu lo dici” rivolto da Gesù a Pilato.
È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
Prof. Cristian Lanni
[7] Il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia fu un organismo attivo tra la fine del 1963 e il 1970, quando confluì nella neonata Congregazione del Culto Divino. Scopo del Consiglio era di dare applicazione alla costituzione Sacrosanctum Concilium, approvata dal Concilio Vaticano II. Il Consilium è stato un organismo posto alle dipendenze dirette del Pontefice e incaricato di elaborare dei nuovi testi liturgici, per progettare e attuare una riforma dei riti e della liturgia, di cui durante il Concilio Vaticano II erano stati indicati solo pochi princìpi generali.
[8] La dottrina della regalità sociale di Cristo nasce e conosce le sue prime articolazioni in Francia a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento. Il principale elaboratore e promotore è il gesuita Henri Ramière (1821-1884), direttore della rivista Messager du Coeur de Jésus e professore di Filosofia del diritto all’Università cattolica di Tolosa. Si veda, inoltre: F. Olgiati, La divina regalità nella storia, in La regalità di Cristo. Relazioni, atti e voti del primo congresso nazionale della regalità di G. Cristo (Milano 20-22 maggio 1926), Milano 1926, 86-108.
[9] Cfr. D. Menozzi, Rinnovamento dottrinale e storiografia, Roma 1999.
[10] L’editto di Milano, il concilio di Nicea, la scoperta della croce per opera di sua madre Elena.
[11] Sulla pratica delle incoronazioni e intronizzazioni dell’immagine S. Cuore nelle famiglie e le relative implicazioni politiche si veda: D. Menozzi, L’intronizzazione del S. Cuore nelle famiglie, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 33 (1997), 29-65.
[12] Cfr. R. Moro, Il mito dell’impero in Italia, Roma 2004, 317-319.
[13] Cfr. Pius PP. XI, Littera Encyclica De Pace Christi in Regno Christi quaerenda: Ubi arcano, diei 23 decembris 1922, in AAS, XIV (1922), 673 ss.
[14] Gv 1, 14, 17.
[15] Lc 4,5-7.
[16] Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27.
[17] Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14.
[18] Gv 19,18.
[19] Gv 12,32-33.
[20] Gv 19,22.