Commento al vangelo della IV Domenica di Quaresima

Ciascuno di noi è nato in uno sguardo. L’immemorialità di quello sguardo sorgivo, che ha fatto sì che ci accorgessimo del nostro esserci, è il dono più grande che l’altri ci ha fatto. Lo sguardo altrui ci fa esistere. Siamo mendicanti di sguardi che ci facciano vedere, di sguardi che ci facciano esistere. Non a caso l’esperienza più ferente che possiamo sperimentare è il non essere visti o visti male. Essere invisibile è peggio che non vivere, cantava una canzone. Ma nemmeno il non vedere scherza.

L’uomo alla piscina di Siloe è un invisibile, per di più cieco dalla nascita. Quelli che gli stanno intorno, invece, non sono ciechi, eppure saranno loro ad essere definiti ciechi alla fine, mentre l’anonimo mendicante, emarginato due volte, persino dai genitori, alla fine è quello che ci vede benissimo.

Giovanni mette in scena un bel rovesciamento, una dinamica paradossale a cui il Dio del Magnificat pare tenere molto, forse noi meno. Una dinamica, profondamente pasquale: rovesciare, infatti, è ciò che Dio fa nella Pasqua, quando la morte è tramutata in vita! E coloro che sono di Cristo Gesù sono stati segnati da quel paradosso nel battesimo!

Inviato nell’Inviato

L’esperienza che fa l’uomo alla piscina di Siloe, che significa inviato, è un’esperienza di nuova creazione: il gesto, con cui Gesù, luce del mondo, lo guarisce, è il gesto creativo di Dio con Adam, l’ultima delle creature. Il battesimo è questo: una nuova creazione, che si compie attraverso l’immersione in colui che è l’Inviato del Padre, per essere in lui anche noi inviati. Il vero senso battesimale del brano non è tanto nei simboli – acqua, fango, luce – quanto in ciò che il cieco ora guarito fa e dice dopo che gli sono stati aperti gli occhi. Gesù è scomparso dalla scena e rimane solo lui a diradare il bandolo della matassa di quel segno, di quel gesto, di quello sguardo che non ha ancora visto eppure gli ha cambiato la vista, gli ha cambiato la vita.

Processo giudiziario

Inizia così un lungo processo, che occupa ben 25 versetti: chi ha aperto gli occhi al cieco? Ma, soprattutto, chi è? È singolare come la risposta arrivi attraverso un dialogo serrato: ancora una volta la risposta non può che essere trovata sinodalmente, paradossalmente dibattendo anche con l’avversario.

È stato detto che il vangelo di Giovanni è un lungo processo giudiziario, attraverso cui si svela l’identità di Gesù. Qui ne abbiamo come un rito abbreviato, in cui il vedente di Siloe è sia testimone, sia giudice che indaga. Non ha risposta pronta il vedente guarito, ma la trova, la esplicita, la capisce nel dibattito serrato con l’accusa. “È un uomo” – dirà. “Ma non viene da Dio,” – gli diranno – “perché è un peccatore e non rispetta il sabato”. “No, è un profeta!” – si ostina l’uomo guarito; ma “non è Mosè, a cui Dio ha parlato”. Intrecciando la sua esperienza, la riflessione e la Scrittura, l’inviato dell’Inviato osserva: “Ha aperto gli occhi a un cieco, questo può farlo solo Dio: o è uno che Dio ascolta o uno che fa la volontà di Dio”. Loro rincarano la dose: “Non sappiamo da dove viene!”. Ma il cieco dice: “Viene da Dio, perché ha aperto gli occhi a un cieco!”. E aprire gli occhi a un cieco è un segno messianico. Lui ne sa più degli addetti ai lavori, che rischiano di sacrificare al dogmatismo e al conservatorismo la novità inesausta ma sempre familiare di Dio, col rischio di non vedere la risposta sotto al naso fin dall’inizio: il gesto creatore, infatti, ridotto a questione legale, rovesciato addirittura in una profanazione!

Processo esistenziale

Ma il processo “giudiziario” si intreccia a quello personale dell’ex-cieco, che partendo da giudice inquisitore pian piano diventa testimone, raccontando e rileggendo grazie agli altri la propria esperienza: approda così alla fede, in un progressivo aprirsi dello sguardo, in un progressivo processo e percorso che da invisibile, cieco e marginale lo rende visibile, testimone unico e addirittura centro di un affaire che porterà alla rivelazione del Messia e alla sua accoglienza. 

È il percorso che anche noi siamo chiamati a fare per riappropriarci del nostro battesimo: passare dalla fede raccontata e ricevuta, forse per tradizione, alla fede riflessa, creduta e vissuta; passare dalla cecità di una vita totalmente ripiegata e immobile al dinamismo luminoso di una vista e vita ri-aperta che vede la novità di Dio e che si vede ricevuta dal suo sguardo.

Occhi negli occhi

Foto di Victoria_Watercolor da Pixabay

Alla fine è tutto là. Il cieco, ora vedente, il fedele, il testimone, il battezzato è uno che si è ricevuto in uno sguardo, si è ricevuto nello sguardo pasquale. È uno che si è visto negli occhi di Dio e ha visto Dio negli occhi, non in un corso di metafisica, ma nella carne della storia e degli eventi. È uno che ha familiarità con l’Invisibile e una vocazione per gli invisibili. E tutto viene da quel vis-à-vis con Dio, che viene molto dopo il battesimo e non è mai pienamente compiuto.

Perciò, è bello che solo alla fine il cieco e Gesù si guardino negli occhi. E lì, in quello sguardo, il secondo si rivela Messia, Figlio dell’uomo, ma soprattutto Colui che parla con te. Uno che ti guarda negli occhi. Uno che ti dona i suoi occhi di Risorto. E ti fa vedere la vita innervata di Pasqua… e allora puoi credere: dare il cuore – tutto te stesso, anche la parte peggiore, anzi soprattutto quella! – e il tuo domani! Credo, Signore! Cor do, cras do! Ti do il cuore, ti do il mio domani!

Tu entri dalla porta dello sguardo
e rimescoli le viscere…

Alda Merini, Corpo d’amore

Francesco Pacia

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