«Il resto sei tu», dice Mario a Daniele. 


Mario è un maestro delle elementari che un “pasticciaccio” inchioda lì, in quell’ospedale dei matti.
Come un padre paziente e tenero insegna a Daniele molte cose, gli insegna che tutto quello che nel nostro
cuore vuole vivere per sempre ha bisogno di noi-come-siamo, perché solo noi, come siamo, riconosceremo
l’amore che dall’eterno ci chiama a essere. E noi-come-siamo, a dire la verità, assomiglia a un piccolo resto. 

Così anche i profeti chiamavano Israele: un resto, che il Dio dei nostri padri si è scelto. Nei vangeli è lo
scarto della tavola, il paralitico, l’adultero, il lebbroso, quell’allegra compagnia di sommersi che il Figlio
dell’uomo è venuto a perdonare; in matematica è quell’avanzo che non è stato possibile dividere; nei porti
del Mediterraneo è un «carico residuale» di migranti da smaltire; nei commerci, è quello che ti è restituito
per aver dato di più. 


Tutto chiede salvezza” è un romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli (2020), da cui Netflix ha
tratto una serie, diffusa a partire dallo scorso 14 ottobre. 
La storia che vi è narrata è un salto coraggioso – a me viene quasi da dire redento – nei vent’anni di
Daniele: quella notte che tre grammi di cocaina lo strappano alla sua stessa coscienza e lo danno in pasto
alla rabbia, di cui farà le spese il padre (e chi, se no?). Sedato e ricoverato in un ospedale psichiatrico, lo
attendono sette giorni di Trattamento Sanitario Obbligatorio: una “ricreazione” tanto indesiderata quanto
forte è il gemito di salvezza che l’accompagna. 


Con Daniele, altri cinque (im-)pazienti – Gianluca, Madonnina, Alessandro, Mario, Giorgio – un coro di
relitti, storie smarrite perché nessuno mai si è degnato di ascoltarle e raccoglierle. Ma Daniele – che ha dalla
sua la passione per la poesia – le ascolta, le raccoglie: la prosa di Mencarelli non è mai una cronaca
sterilizzata, ma una traduzione di poesia quotidiana senza metrica, l’oracolo di una realtà che più realtà non
è possibile. L’autore non era nuovo all’urgenza di raccontare l’amore per la realtà nuda, in cui bellezza e
tanfo non si addomesticano a vicenda.

A ventiquattro anni gli capiterà di lucidare i vetri del Bambin Gesù, dove regna il dolore bambino (lo racconterà nella sua opera prima “La casa degli sguardi”, 2018). La realtà – dirà da un palcoscenico – ci accoglie e ci tiene, ma esige che tu ti disponga a incontrarla «per via interiore»; e la via interiore è quella che, stranamente, sposta il tuo baricentro fuori di te.


Quando Daniele saluterà i suoi compagni al termine di questo pellegrinaggio inatteso, si guarda intorno e
avverte che tutto gli chiede salvezza. Non è il delirio solitario della psicosi, ma un avvertire del cuore. Lì
avverti che nel guardare un altro, quell’altro comincia ad abitare anche te. E se quell’altro dovesse
trascinare con sé una “bestia d’angoscia”, quella bestia può saltare addosso anche a te. 

Perché è vero questo: se facciamo silenzio, sentiamo questo appello della vita ferita rivolto a noi, anzi lo portiamo dentro di noi come una domanda. Questa domanda i poeti la dicono bene, perché molto spesso la via-vita interiore
predilige il codice eccentrico della poesia. Tu sai, per caso, in quale fiume posso immergere la «docile fibra
dell’universo» che sono? Tu sai «la formula che mondi possa aprirti
»?  


«La mia malattia è la salvezza», dice Daniele. Ma non ha a chi dirlo, perché queste parole sono in effetti un inciampo. Dire la mia malattia è la salvezza non è una frase suggestiva messa lì per amore di letteratura, ma un’opposizione polare realissima ed esigente che segna l’intima costituzione di tutti gli uomini. Cioè: io ho talmente tanta sete di essere salvo, che mi fa male. Ed è ancora più assurdo, se volete, perché salvezza viene da salute, quello-che-malattia-non-è. Non solo: incorporato al significato di salvezza c’è anche quello di integrità, mentre a quello di malattia di solito leghiamo l’idea di un qualche guasto.


Questo era chiarissimo a mia madre, ad esempio. (Perdonatemi un piccolo inciso.) Quando mi sono
guastato per una malattia del sangue, lei pregava perché guarisse il mio cuore. Non una parte di me, ma –
ancora una volta – tutto me, che lei chiamava il cuore. Chiedere la guarigione del corpo sarebbe stato
troppo poco per una madre. Lei chiedeva la mia salvezza. E c’è stata (data) una Madre che chiede salvezza
per tutti, la incontriamo sotto il patibolo del più bello tra i figli dell’uomo, irriconoscibile e “irriconosciuto”.


È questa la parola che cerchiamo: solo una parola e sarò salvato. Ma dilla tu, ché io tremo.

Nella smania di sicurezza che abbiamo oggi, in un tempo così denso di conflitti e ritorsioni contro l’umano,
dire salvezza significa aprire una breccia nella pietra dei sepolcri in cui ci siamo nascosti, nelle soluzioni
biodegradabili che contrabbandiamo con il mondo perché non ci tolga la vita. 

Noi cristiani addirittura ci gloriamo di affermare che la radice del nome di Gesù è «salvare», il volto stesso di Dio. Ma questa novella non è realmente buona finché non confessiamo a chiare lettere che la salvezza è venuta per i malati, e che questi malati siamo tutti.

Nella Lettera ai Romani, non solo è detto che tutta la creazione geme, ma che non è la sola a farlo: «anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 23). Tutto chiede salvezza, e la salvezza chiede tutto. Non c’è dimensione della nostra umanità che non sia destinata a essere raggiunta e salvata.


La scintilla di bellezza che Mencarelli riconosce in questa esperienza di discesa agli inferi è che «quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca». L’avvento-evento della salvezza – che ogni persona invoca – accade per molti. È un popolo che s’avventura nel deserto per accogliere il dono della liberazione, un popolo che implora insieme, che intona “i canti delle salite” perché è disceso ed è stato conosciuto nella sua miserabilità.

La salvezza scende nell’umanità molteplice. La fede cristiana crede in un Dio incarnato, che si fa compagno
di tutti i crociferi del mondo, e ne condivide fino in fondo il destino. Da quella condiscendenza di Dio nel
nostro Giordano scaturisce la preghiera, che nelle tradizioni più antiche è un rantolo del cuore che chiede di
respirare.


Mencarelli racconta che il sesto giorno del TSO, uno dei cinque cade: una tragedia che innesca la
preghiera di tutti: «Dio te prego, te prego, se ce stai proteggi Mario, pe’ quello che ha sofferto, perché tutto
er male non l’ha incattivito, perché ha ascoltato tutti, pe’ tutti c’ha sempre avuto ‘na parola. Te prego Dio
».
Le preghiere sono resistenza alla catastrofe, parole che osano chiedere al cielo di Dio di piegarsi. Quando
Cristo prega, fa questo: chiede in ginocchio alla misericordia del Padre di salvare tutti. «La vera pazzia –
infatti – è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai
». 


All’inizio del romanzo, Gianluca – che ha in sorte una diagnosi di bipolarismo, per cui deve
convivere con un’ospite indecorosa – si avvicina all’orecchio di Daniele e gli rivela: «Sono vergine». 
E io ti credo, Gianluca, in fin dei conti hai ragione tu: sei vergine. Chi ti ha creato, ha intessuto in te un cuore
capace di verginità, un cuore che non si lascia incattivire, che non cede a nient’altro che alla compassione.

Daniele sa che dentro ciascuno c’è il seme di qualcosa che è avvenuto prima di tutte le storie, prima di ogni
caduta. E vuole salvarlo.
Siamo trovati mancanti, ma siamo trovati. È quel meno che abbiamo è il di più d’umanità da offrire
all’universo, come un tesoro. Noi-come-siamo.

Il libro di Daniele Mencarelli, qui.

Uno dei brani della colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=XD77aMyCv0Q

Per chi volesse leggere altri approfondimenti sui “Santi nascosti”, potete cliccare qui.

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