Al centro della trattazione che l’Apostolo imbastisce circa i doni che lo Spirito Santo concede a ciascun credente, in vista dell’utilità comune, è posto il suggestivo elogio della carità (1Cor 13), uno dei testi più affascinanti dell’epistolario paolino.
Esso costituisce una sorta di vaccino contro il rischio – sempre in agguato – di sentirsi superiori agli altri, vivendo immersi in quella superbia che gonfia, ma non edifica. Perfino il dono sublime di poter pregare Dio con il linguaggio che gli stessi angeli utilizzano al cospetto dell’Altissimo, sarebbe un noioso e vuoto tintinnio, se mancasse la carità. In fin dei conti, qualunque cosa siamo o facciamo, niente gioverebbe alla nostra salvezza se mancasse questo dono, il più sublime di tutti.
Ma cosa intende Paolo per “carità”? Nelle sue pagine, sia il sostantivo “amore” che il verbo “amare” non si riferiscono primariamente all’amore dei cristiani per Cristo (o per i loro fratelli), ma più specificatamente all’amore gratuito e incondizionato del Signore per gli uomini, l’amore del Cristo che “è morto per tutti… perché quelli che vivono non vivano più per se stessi”(2Cor 5,14-15).
I tratti con cui è descritta la carità in questa pagina, sono quindi prima di tutto i lineamenti dell’amore del Cristo: è il suo amore che è magnanimo, che non cerca il proprio interesse, che non tiene contro del male ricevuto, che tutto scusa e sopporta. Proprio per questo l’amore è il primo frutto dello Spirito (cf. Gal 5,22) che suscita nei credenti gli stessi sentimenti del Cristo, nella misura in cui essi cercheranno di conformarsi a Lui (cf. Rm 8,9), amando con lo stesso amore con cui sono gratuitamente amati.
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don Fabio Villani