Si riapre il sipario sul terzo atto del Cantico dei Cantici in una ambientazione impersonale, mentre tutt’intorno riecheggia un interrogativo: «mi zot?», chi è colei. Questa stessa domanda riecheggerà, poi, altre due volte; in apertura del quarto (6,10) e del sesto (8,5) atto. Anzitutto, prima di una lettura critica dell’atto terzo, bisogna rilevare che si è spesso fatto riferimento, fra gli autori, ai due come sposo e sposa, tuttavia mai — prima d’ora — si è fatta menzione di un matrimonio.

Una sottolineatura sin dai primi versi: «Chi è colei che sale dal deserto, come colonne di fumo»; l’ interpretazione della carovana che sale dal deserto come una colonna di fumo non è univoca nei particolari, ma sul messaggio generale le voci sembrano concordare. Si tratta di una immagine che intende descrivere il cammino che necessariamente deve essere fatto prima di arrivare alla nuova Gerusalemme e quindi alle “nozze eterne”. Il lungo cammino è nel deserto. Siamo di fronte alla sorpresa di un corteo di nozze che si conclude con l’incoronazione dello sposo nel giorno della gioia del suo cuore, nel giorno del suo sposalizio.

Tutto l’insieme dei versetti dal 6 al 10 non è altro che una romantica descrizione di come si svolgerà il misterioso corteo nuziale e poi il rito di accoglienza definitivo degli sposi; è quello che noi possiamo raffigurare nella terra promessa, in questo mondo e del Paradiso che ci attende nella vita futura. Il profumo di mirra e d’incenso e di ogni polvere aromatica, sta appunto a significare l’intensità e la raffinatezza tanto del corteo quanto del rito nuziale. Il tutto non in una coreografia esteriore, ma avvolto in un clima di Amore grande e maturo.

Edward_coley_burne-jones, Il_corteo_nuziale_di_psiche

La riflessione sul viaggio nel deserto tuttavia, sull’incedere verso — che biblicamente rappresenta l’Israele di Dio che procede verso la terra promessa — ci porta inevitabilmente a congetturare un pensiero circa un possibile nuovo Esodo che l’autore sacro vuole descrivere in queste immagini quasi criptiche. È l’Esodo continuato e diuturno della storia dell’uomo, con le stesse risonanze del primo, quando Israele salì dal deserto e arrivò fino alla riva del Giordano. Quello fu un Esodo che suscitava nei popoli limitrofi dei grossi interrogativi. Una forte impressione deve aver fatto la colonna di nube, segno della presenza del Signore che marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte (cfr. Es. 13,21). Dunque un nuovo Esodo, ma anche — se volessimo rimanere nella metafora del matrimonio — il messaggio di una presenza costante del Signore accanto agli sposi in quell’Esodo quotidiano che è la vita, il quale parte attraversando il deserto dei giorni per raggiungere le sponde del Giordano del Cielo.

Chi è colei che sale dal deserto?

Certamente il testo non si presenta come facilmente interpretabile, è indubbio. È certo che si tratti — stando alla lettera del testo — di un corteo nuziale, lo abbiamo detto, ma chi è colei che sale dal deserto? Se il matrimonio è quello di Salomone, in quale relazione sta con la vicenda dei due innamorati? In modo particolare c’è da domandarsi quale sia il rapporto tra la domanda del sesto versetto e la risposta che parla della lettiga di Salomone; tuttavia l’empasse può superarsi tenendo conto del linguaggio simbolico del Cantico; Salomone è punto di riferimento ideale per ogni innamorato, con la sua bellezza e la sua magnificenza.

Tornano alla scena, l’innamorato è affascinato dal baldacchino sotto al quale giace la sposa adagiata, baldacchino che è chiamato appiriòn, una parola esotica utilizzata qui e mai più nella Bibbia. Interessante sottolineare che la traduzione può non essere solo “baldacchino” ma anche “cocchio” e se così fosse nulla osterebbe un’interpretazione che abbracci — ancora una volta — anche il Nuovo Testamento e nella fattispecie l’incarnazione del Verbo di Dio. In effetti, si può interpretare così: l’onnisciente prescienza di Dio, conoscendo sin dalle origini l’intenzione di assumere la natura umana, si costruì in Maria Vergine come un appiriòn, colei tramite la quale entrare nel mondo. Questo cocchio lo costruì con legno del Libano, ove Libano — tradotto — significa “candore”. Tutto il riferimento è quindi al sacro concepimento di Maria Immacolata, colei che è preservata da ogni macchia diretta o conseguente al peccato originale.

Da questa interpretazione si può allora meglio comprendere anche la successiva lode del corpo femminile. La meraviglia è d’obbligo perché l’amore si nutre di stupore e lui — l’innamorato del cantico — va di stupore in stupore non lesinando i complimenti. Immagini e paragoni rispecchiano i gusti della cultura semitica e riflettono l’ambiente bucolico in cui lui vive, oltre che quello più sofisticato e diremmo cittadino, dal quale proveniva Salomone. L’intensa e particolareggiata lode della sposa, viene qui espressa con un simbolismo che prende spunto dalle varie parti del suo corpo. Certamente non si tratta di una lode ad una “colei” qualsiasi, ma il riferimento è ad una precisa persona che manifesta attraverso la sua corporeità le meraviglie che lo Sposo ha operato e continua ad operare in lei . L’Amore trasforma! L’Amore rende sempre più conforme l’uno all’altro. Tutto questo significa che più una persona è ricca di Dio e più anche i segni della sua corporeità assumono caratteri qualitativamente raffinati . Una significativa testimonianza si ha nella Genesi, là dove parla della creazione dell’ uomo e della donna, che Dio ha voluto e creato con alcune caratteristiche simili alla Sua Divinità, constatando che era cosa molto buona (cfr. Gen. 1, 31). Il libro della Genesi quando descrive la creazione dell’uomo e della donna, non dice se questa prima coppia era vestita oppure no. La loro situazione però venne indirettamente, ma sapientemente rivelata quando, purtroppo, il peccato ha infranto la profonda armonia fra la creatura e il Creatore, ma anche all’’ interno della persona e cioè fra corpo e anima (nefesc). È significativo il testo di Gen. 3, 7: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». Dal testo risulta chiaro che soltanto dopo quel peccato di disobbedienza, la realtà corporea è risultata priva di quella bellezza che il Signore stesso aveva dichiarato cosa molto buona (cfr. Gen. 1 ,31 ). Il peccato quindi, ha svuotato il corpo di ciò che lo rendeva non solo una realtà preziosa, ma allo stesso tempo elemento capace di rivelare e comunicare quello che di più bello e significativo una persona ha dentro di sé. Il corpo della Sposa è quindi presentato come una realtà ancora capace di rivelare il volto dello Sposo. E’ così che lo Sposo vede nella Sposa sé stesso. Il corpo della Sposa del Cantico è di fatto in grado di rivelare cose divine, comunicare valori trascendenti, aprire nuovi orizzonti pieni di vita. La corporeità che il Cantico mette in evidenza e tanto loda, è allora una sintesi di ogni bellezza umanamente desiderabile e capace di saziare le rigorose esigenze del nostro profondo.

Il giardino dell’amore

L’ultima scena che di questo terzo atto vogliamo considerare è quella del giardino dell’amore. Dopo molte lodi e apprezzamenti la sposa continua nella descrizione del cosiddetto giardino dell’amore, siamo ai versi 4,15 sino a 5,1 e nuovamente ci troviamo di fronte alla difficoltà di comprendere con precisione quanto lei stia dicendo. Colei invoca il vento del nord e quello del sud, ma lui dice che è già venuto nel suo giardino; dunque a cosa giova la complicità del vento? Sembra nuovamente che il sogno trapassi la realtà e che l’immaginazione dei due superi le possibilità concrete. Tuttavia, in questa dimensione tra l’onirico e il reale i due innamorati trovano la perfetta sintonia; riescono a comunicare e comunicarsi in modo diretto tramite le vie dei propri desideri. È a questo punto che si ode il grido prorompente di colei che invita lui ad entrare nel suo giardino e l’ultima parola di questo terzo atto appartiene ancora allo sposo, soddisfatto della sua esperienza. Effettivamente era stato lui a prendere l’iniziativa, ad essere protagonista, seppure solitamente sia lei la più attiva.

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Nella cultura ebraica, la venuta dell’innamorato nel suo giardino simboleggia la venuta della Shekinà, ovvero della Divina Presenza nel Tempio di Gerusalemme al momento della dedicazione. Tuttavia, se consideriamo questo e l’archetipo dell’Eden, sovverranno ulteriori indizi, come ad esempio il collegamento con la personificazione della Sapienza. Nel libro del Siracide la Sapienza fa di sé un elogio paragonandosi alle più nobili fra le piante, le più utili e profumate (cfr. Sir. 24) e dopo essere stata identificata con la Legge mosaica, viene paragonata ai quattro fiumi del paradiso (cfr. Sir. 24, 25-27), nominati in Gen. 2, 10-14.

La liturgia cristiana, infine — per tornare al precedente paragone con la Madonna — utilizza questi brani nelle feste della Vergine Maria, offrendo così un’ulteriore esemplificazione di come medesime immagini possano essere applicate a differenti realtà, creando legami simbolici quanto significativi.

Prof. Cristian Lanni

Il secondo atto lo potete trovare qui: https://www.legraindeble.it/o-tu-che-il-mio-cuore-ama-lamato-mio-e-il-dio-vivente/

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