Il pastore che incontriamo nel capitolo decimo di Giovanni è ben diverso, pur essendo la medesima persona, di quello del Vangelo di Luca. Lì era un pastore preoccupato ed occupato a cercare la ‘pecorella smarrita’, qui – invece – è un pastore combattente, uno che non ha timore né remore a combattere per le sue pecore che poi saremmo noi, pagando con il suo sangue, come sulla Croce; a custodirle in un recinto e poi – al mattino – seguendole farle uscire per la porta, un’unica porta, chiamandole per nome.

Chiamarle per nome“, ascoltando e leggendo passo evangelico di questa IV domenica di Pasqua ciò che subito mi ha catturato è stato questo particolare: chiamare per nome le pecore. Il perché di questa particolare attenzione è che un mio amico frate, quando ci parlo, mi ammonisce dolcemente: “Occorre chiamare le cose con il proprio nome“.

In un tempo così confuso e che confonde, credo che questo sia necessario più che mai: fare verità (altra parola tipicamente giovannea) su ciò che viviamo e chiamarlo con il proprio nome. Chiamare le cose con il proprio nome richiede coraggio, una certa onestà con se stessi, vuol dire entrare dentro se stessi e dire “questa cosa che sto vivendo non va bene“, “in questa altra, invece, faccio difficoltà”. Prima che marciscano, prima che inizino a corrompersi, alcune situazioni vanno poste alla luce del sole.

Un esempio? La ‘doppiezza’ con cui viviamo tante stanze della nostra esistenza, in un determinato ambito sono così, in un altro – invece – diverso, quasi l’opposto, una doppiezza che ci porta a mentire agli altri ma soprattutto a noi stessi. Oppure una dipendenza, quante dipendenze sono nascoste nelle pieghe della nostra vita e noi le chiamiamo ‘abitudini’. Diceva un grande teologo russo, Pavel Florenskij, che il problema non è il peccato di per sé ma aver normalizzato il peccato, come se fosse una realtà naturale, invece di essere un male da evitare e da combattere sempre con Cristo, che è la Misericordia del Padre.

Occorre prendere queste “cose”, darle un nome, poi farle prendere aria, farle uscire…da dove? Dalla porta che è Cristo! La stessa porta che ci viene indicata nel Vangelo odierno. Perché proprio Cristo? Perché solo lui con il suo infinito amore passionale sa aiutarci a fare verità senza ferirci ulteriormente, più di quello che siamo già.

Fare verità in sé” è un processo delicato, è come un parto, occorre tempo e pazienza, una certa cura nei gesti, anche una certa competenza. Nessuno ci si può improvvisare maieuta o ostetrica dall’oggi al domani. Quindi attenzione a tutti quei ‘finti pastori’, che poi sono mercenari, che promettono miracoli nella nostra vita, per poi lasciarci a metà percorso peggio di prima.

Ecco cosa il Vangelo di oggi mi ha suscitato, una meditazione forse un po’ bruciante, un po’ brutale ma l’amore, alcune volte, ha bisogno di essere energico, di scuoterci dai nostri torpori, dalle nostre illusioni. Dall’altra parte della porta, non ce lo dobbiamo dimenticare, c’è il Bel Pastore che non vuole tenerci in questi recinti di schiavitù ma vuole portarci negli infiniti pascoli della libertà.

E’ Risorto veramente, non dimentichiamocelo!

Paride

La meditazione alla III Domenica del tempo di Pasqua, la trovate qui:Emmaus, il-fuoco d’amore del Risorto

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