Le notti dell’anima come memoria di Dio

Continuiamo con questo articolo il nostro percorso nella poesia contemporanea: ci eravamo lasciati guardando al Notturno di Cesare Pavese e scorgendo in esso tutta la tensione al Mistero, condensata in versi densi di significato (qui per leggere l’articolo). Ora vogliamo leggere insieme una poesia di Emily Dickinson (per conoscere la poetessa, qui), Ci abituiamo al buio. Eccone le prime due strofe:

A Dio

Ci abituiamo al buio
quando la luce è spenta;
dopo che la vicina ha retto il lume
che è testimone del suo addio,

per un momento ci muoviamo incerti
perché la notte ci rimane nuova,
ma poi la vista si adatta alla tenebra
e affrontiamo la strada a testa alta.

I versi della poetessa scavano dentro la vita dell’uomo e vanno ad attingere all’esperienza umana della notte: la descrizione fisica di un corpo umano al buio è immagine necessaria per comprendere la notte dell’anima di cui parlerà pochi versi più avanti. L’uomo si abitua al buio, quando la luce è spenta, ovvero, parafrasando, ‘dopo aver fatto esperienza di una sorgente luminosa’. Dapprima si incontra la luce. Poi, incontrando la notte, la si riconosce come ‘dimensione priva di luce’. La notte diventa, così, qualcosa di nuovo rispetto alla totale luminosità di provenienza. L’addio di cui parla la Dickinson è un a-Dio della luce: concepita nel fulgore della mente del Padre, l’anima è destinata all’approdo terreno, dal grembo della luce eterna, lo spirito dovrà far esperienza della notte del mondo. 

Tenebre più vaste

Così avviene con tenebre più vaste –
quelle notti dell’anima
in cui nessuna luna ci fa segno,
nessuna stella interiore si mostra.

Anche il più coraggioso prima brancola
un po’, talvolta urta contro un albero,
ci batte proprio la fronte;
ma, imparando a vedere,

o si altera la tenebra
o in qualche modo si abitua la vista
alla notte profonda,
e la vita cammina quasi dritta.

Nelle ultime tre strofe della poesia si disvela a pieno il significato della metafora del buio: l’evidenza fisica della notte – il fatto che la notte esista e che possiamo farne carnalmente esperienza – è paradigma di tenebre più vaste, parafrasando, ‘tenebre che coinvolgono l’esperienza umana non solo nella carne, ma anche nello spirito’, quelle notti dell’anima in cui non c’è alcuna manifestazione di luce. Nel pronome dimostrativo quelle sta tutta l’evocazione poetica della vita umana: la poetessa parla direttamente al cuore dell’uomo e lo chiama ad essere centro propulsore del movimento vitale. La notte diventa grazia perché chiama l’anima a ricordarsi della luce, o meglio, a ricordarsi che solo la luce eterna che l’ha generata sarà il punto d’arrivo del proprio cammino.

La notte come memoria

È la notte che ci fa ricordare chi siamo, che spinge a vedere di nuovo, a sapere con profonda certezza dove è la felicità, cosa cerca il profondo del nostro cuore. Così, si prosegue, camminando quasi dritti, nelle imperfezioni delle scelte quotidiane, in ogni mancanza, in ogni errore. Ma si prosegue perché sappiamo che tutto, anche la notte, consiste della luce di Cristo.

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