I teologi di Jorge Luis Borges è tra i più famosi racconti dell’Aleph. Breve, intenso, erudito. Quasi un gioco di frammenti, specchi e parole, in cui la verità è destinata a riflettersi e diluirsi in un ininterrotto e ascetico agone tra eresia e ortodossia.

Borges

Aureliano e Giovanni di Pannonia

I protagonisti del racconto di Borges sono due teologi, entrambi dalla stessa parte, quella ortodossa, eppure nemici, Aureliano – di cui seguiamo il racconto – e Giovanni di Pannonia. Si leggono, si confutano, si inseguono, eppure non si incontrano mai, se non alla fine della storia, che inizia con un monastero in fiamme devastato dagli Unni, da cui si salva uno stralcio del XII libro del De civitate Dei, che riporta un passo di Platone su quello che oggi “nietzschianamente” definiremmo l’eterno ritorno dell’identico, e si conclude nel regno dei cieli davanti all’insondabile divinità

I monotoni o anulari, ovvero dell’eterno ritorno

Ironia della sorte, il brano platonico – che il vescovo di Ippona riportava per confutarlo – dà origine all’eresia dei monotoni o anulari, che sostenevano la circolarità del tempo e avevano sostituito la croce con la ruota e il serpente. Basarsi su un frammento per costruire un sistema può essere pericoloso, ma fortunatamente Aureliano decide di scendere in campo per il bene della verità. Insinua il narratore, però, che lo faceva anche per non essere da meno rispetto all’odiato rivale Giovanni. Aureliano studia e scrive senza sosta per nove giorni: cita Origene, Cicerone e Plutarco… Ma al decimo giorno gli portano la confutazione scritta da Giovanni: irrisoriamente breve, due citazioni bibliche, pochi semplici argomenti: nel vasto universo non vi sono due facce uguali, né due anime uguali; il peccatore più vile è prezioso quanto il sangue sparso per lui da Gesù Cristo; l’atto d’un solo uomo pesa più che i nove cieli concentrici e fantasticare che possa perdersi e ripetersi è una complicata sciocchezza. Il tempo – chiosa – non torna a fare ciò che perdiamo. Il trattato è limpido, universale: sembra scritto da qualunque uomo, o forse da tutti gli uomini.

Nemici sotto lo stesso nome

Aureliano si sente umiliato dall’avversario. Eppure, con vendicativa probità anche lui invia il testo a Roma. Al concilio di Pergamo, però, viene scelto – e c’era da aspettarselo – Giovanni quale teologo incaricato di confutare i monotoni, che sconfitti vengono mandati al rogo. Ma la bestia dell’eresia, si sa, è come un’idra: più viene distrutta, più essa si moltiplica. E così i due teologi ortodossi, Aureliano e Giovanni, possono continuare a sfidarsi, pur sotto lo stesso nome, combattendo contro gli ariani o disapprovando gli anatemi di Costantinopoli II. Nemmeno una volta, però, il nome Giovanni ricorre nelle opere di Aureliano. Del nome di quest’ultimo nelle opere di Giovanni, purtroppo, non si può dire: dei suoi scritti – ironia della sorte – si sono salvate solo venti parole, trasmesse anonimamente proprio da Aureliano, quando questi dovette affrontare l’eresia degli istrioni dai molti volti.

Gli istrioni, ovvero del doppio

Questi, tra le tante cose, sostenevano che ogni uomo è due uomini e che il vero è l’altro, quello che sta in cielo. Immaginarono anche che i nostri atti gettino un riflesso invertito, di modo che se noi vegliamo, l’altro dorme, se fornichiamo l’altro è casto, se rubiamo l’altro dà del suo. Morti, ci uniremo a lui e saremo lui. Gli istrioni presenti nella diocesi di Aureliano inoltre affermavano anche che il tempo non tollera ripetizioni e non esistono due istanti uguali. Chiamato a esporre la loro dottrina del tempo in un testo, la condensò in una frase di venti parole… Ma lo turbò il sospetto che fosse d’altri. Il giorno dopo la scoperta: era dell’Adversus anulares di Giovanni, l’opera che lo aveva umiliato al tempo del concilio di Pergamo.

L’incertezza prese a tormentarlo. Variare o sopprimere le parole significava indebolire l’espressione; lasciarle era plagiare un uomo ch’egli aborriva; indicare la fonte equivaleva a denunciarlo perché quelle parole che all’epoca avevano confutato gli anulares ora corroboravano l’eresia degli istrioni. Anche se l’angelo custode gli dettò una soluzione intermedia – trasmettere le parole in forma anonima – Aureliano fu costretto a denunciare Giovanni di Pannonia. La deriva delittuosa che l’eresia presa spinse i giudici a condannare Giovanni al rogo: questi non volle ritrattare, perché ritrattare avrebbe significato dar ragione agli anulares.

Uno stesso rogo

Al momento del rogo, a mezzogiorno, quando tra grida strazianti, Giovanni sta morendo, Aureliano per la prima volta in vita sua incrocia il suo sguardo. Non pianse, ma provò quello che proverebbe un uomo guarito da una malattia incurabile, che fosse ormai parte della sua vita.

Per il resto della sua vita continuò a ripensare al rogo di Giovanni: ne giustificò il giudizio, più fatica gli costò giustificare la sua tortuosa denuncia. Alla fine, dopo parecchi anni, morì, anch’egli a mezzogiorno, anch’egli a causa di un rogo, causato da un fulmine che incendiò degli alberi: Aureliano morì com’era morto Giovanni.

La stessa persona

Ironia della sorte, quando i due si ritrovarono in cielo, la sorprendente e sconcertante scoperta che avevano ragione gli istrioni con la loro teoria del doppio… e che la verità, forse, è nell’intero ricomposto più che nel solo frammento.

La fine della storia è riferibile solo in metafore, giacché si compie nel regno dei cieli, dove non esiste il tempo. Si potrebbe forse dire che Aureliano conversò con Dio e che Questi s’interessa così poco di divergenze religiose che lo prese per Giovanni di Pannonia. Ma questo indurrebbe a sospettare una confusione della mente divina. È più esatto dire che nel paradiso Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima) formavano una sola persona.

** Il testo è citato secondo la seguente edizione: J.L. Borges, L’Aleph, Universale Economica Feltrinelli, Milano 201241.

Francesco Pacia

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