Betocchi e lo sguardo al mistero trinitario

Il tempo ci rapisce

In questo giorno che succede la domenica della Trinità, vorrei sospendere per il tempo di un articolo il nostro viaggio nella lirica di Esenin per leggere una poesia di Carlo Betocchi (clicca qui per leggere la biografia), Il tempo ci rapisce e il cielo è solo, dalla raccolta L’estate di San Martino (1961).

Il tempo ci rapisce, e il cielo è solo
anche di queste rondini che il volo
intrecciano, pericolosamente,
come chi va cercando nella mente
 
qualche nome perduto... e il ritrovarlo
nemmeno conta, poichè ormai è già sera.
Eh sì! s'invecchia, e ritorna più vera
la vita che già fu, rosa da un tarlo...
 
un tarlo che lo monda. E vien la sera.
E i pensieri s'intrecciano, e le rondini.
E non siamo più noi; siamo i profondi
cieli dell'esistenza, alti come intera
 
e profondissima, cupa, nel suo indaco.

La poesia di Betocchi

Mentre cercavo fra le pagine di Esenin una poesia adatta a questo tempo, mi risuonavano in testa questi versi di Betocchi. In un primo momento li ho percepiti molto distanti dal mistero trinitario che vogliamo contemplare in questa settimana: come possono le parole di un uomo che guarda a tutta la vita dal limite dei suoi ultimi giorni avere a che fare con l’eternità che l’amore trinitario dischiude all’uomo? Rileggendola una, due, tre volte si è fatto evidente il legame profondo che unisce questi versi al mistero della Trinità.

Scrive P.V. Mengaldo a proposito della raccolta, l’Estate di San Martino: «la misura dei suoi testi più recenti è ormai quella diaristica da taccuino del vecchio, nel segno di un’affettuosa e limpida saggezza, dove i dati un tempo oggettivi e immobili della realtà esterna vengono interiorizzati e per così dire passati al rallentatore dell’esperienza individuale contemplata nel suo trascorrere». Lì, nel punto in cui la vita è memoria, la poesia di Betocchi può farsi portavoce di un’umanità che dice non siamo più noi. Nel limite che separa l’esserci in questa terra e il non esserci più, là dove la morte non è una lontana chimera, ma una realtà più tangibile della vita stessa, si apre una nuova prospettiva, quella dei profondi cieli dell’esistenza

Nella Trinità

È gustando la fine che si è capaci di vivere tutta quanta la vita, senza avere paura di non esserci più, perché è in quella vastità profondissima, cupa che si respira a pieno tutta quanta la consistenza di questo tempo. Nella consapevolezza del limite, il cuore desidera uno spazio più ampio e tutto il sapore di un’infinità che non ci è data al di fuori del mistero trinitario. Perché se tutto finisce, niente è votato alla fine nel volto del Padre.

Elisabetta

Per rileggere lo scorso articolo della rubrica, clicca qui!

Condividi questa pagina!