Cerco nei libri la lettera, anche solo la frase che è stata scritta per me e che perciò sottolineo, ricopio, estraggo e porto via. Non mi basta che il libro sia avvincente, celebrato, né che sia un classico: se non sono anch’io un pezzo dell’idiota di Dostoevskij, la mia lettura è vana. Perché il libro, anche il sacro, appartiene a chi lo legge e non per il diritto ottenuto con l’acquisto. Perché ogni lettore pretende che in un rotolo di libro ci sia qualcosa scritto su di lui. (Erri de Luca, Alzaia)

Un viaggio

Parlare di letteratura e viaggio fa venire in mente diversi cliché. Innanzitutto, che le prime opere letterarie a noi note, di fatto, raccontano viaggi: i poemi di Omero, la saga di Gilgamesh, buona parte dell’Antico Testamento. Il viaggio è il primo tema – insieme alla guerra – fissato nel racconto e per iscritto, dopo le leggi e le prescrizioni civili o rituali. 

Poi, viene abbastanza immediato ricordare che viaggiare, camminare, migrare sono la cifra stessa della storia – con buona pace di sovranisti e nazionalisti – e della vita e che di conseguenza la vita stessa può dirsi come un viaggio, sia esso realmente accaduto o solo immaginato e sognato o, addirittura, allegorizzato. Ed ecco che la letteratura, nelle sue varie forme, dice questa analogia, confermando quella intuizione che a un certo punto fulmina tutti i lettori e che, cioè, vita e letteratura sono indissolubilmente legate: la vita ispira la letteratura, che racconta l’altra, amplificandola, dilatandola, fissandola; a sua volta, la vita ne viene arricchita e la si può sentire più in profondità, la si può cogliere in maniera approssimativamente più vera, più precisa.

Esodo

La letteratura, se uno ci pensa, permette quell’esodo – a maggior ragione oggi più urgente – da sé per ritornare sé e andare verso l’altro e tutto questo attraverso un altro da sé, che in prima istanza è il libro, ma anche chi lo ha scritto. Anche questi, in fondo, ha fatto lo stesso viaggio e la sua opera, come immaginavano gli antichi, una volta licenziata, inizia il suo viaggio tra gli uomini: il poeta greco Teognide cantava a Cirno che, con la poesia che lo immortalava, gli aveva dato le ali per volare sul mare sconfinato ed essere sulla bocca di tutti … e così, anche Orazio, il poeta latino, diceva addio alla sua opera perché con la pubblicazione essa sarebbe appartenuta a ogni tempo e ogni luogo.

Ciò che il lettore trova di sé

L’ispirazione dell’autore – che è un insieme di intuizioni folgoranti, di emozioni veementi sviscerate e masticate, di sentimenti vividi e di immaginazione, capace di ri-creare la realtà, dalla cui esperienza, ad ogni modo, si parte – si traduce in parole e queste in una scrittura che, insegna Francesco Bacone, si fa esatta; quindi, quel mondo partorito dall’autore si fa visibile, nero su bianco, un insieme di caratteri che sono già una forma… e poi quella scrittura si traduce in un oggetto – cartaceo, digitale, manoscritto che sia. Il libro arriva nelle mani dei lettori… e questi, decifrando la scrittura, rifanno il percorso al contrario per arrivare attraverso l’esperienza o l’idea altrui, frammentata nelle parole, a un’esperienza o idea, che conserva l’imprinting originale ma ha qualcosa in più. E quel qualcosa è il di più che il lettore ritrova di sé.

Verso l’Altro

Marcel Proust ha detto questa cosa in maniera mirabile nell’ultimo volume della Recherche, Il tempo ritrovato: «Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso». Oserei di più, il viaggio non è solo in sé, ma anche verso l’altro e, perciò, esodo perché attraverso ciò che leggiamo veniamo non solo messi a fuoco noi, ma anche iniziati, aperti, introdotti a una dilatazione dell’orizzonte vitale, vivendo esperienze lontane anni luce da noi.

Semplicemente con un libro tra le mani abbiamo viaggiato con Ulisse e con lui ascoltato le sirene, vinto Polifemo, pianto Argo e abbracciato Penelope; con Priamo e Achille, pur da nemici, abbiamo pianto la comune condizione umana, la perdita di un figlio, la lontananza di un padre; con Enea abbiamo sperimentato come è difficile mettere insieme pietà e ineluttabilità del Fato; ci siamo innamorati con Abelardo ed Eloisa e abbiamo vissuto il dolore del distacco con la stessa lancinante ferita; abbiamo vissuto il tradimento di Madame Bovary o Anna Karenina e il delitto di Rodion Romanovič, le domande esistenziali e i dubbi lancinanti di Ivàn Karamàzov e l’amicizia di Narciso e Boccadoro o Lina e Lenù.

Siamo stati anche noi lo scarafaggio Gregor Sams, prigionieri e alienati; abbiamo sfidato anche noi le leggi dei re, in nome di quelle del cuore e degli dei, insieme con Antigone; abbiamo attraversato montaliane bufere o eliottiane terre desolate, fiorite di leopardiane ginestre… e come Dante – e con lui – abbiamo trovato che l’inferno è il ghiaccio immobile del non amore, il purgatorio salita faticosa verso l’amore, il paradiso il perdersi in un sorriso e in uno sguardo e una danza cosmica e siderale dell’amore.

Il senso della letteratura

Avremmo mai attraversato questo abisso di umanità, di esistenza, senza la letteratura? E qual è il senso più grande di tutto questo se non il dilatarsi della nostra esperienza ed empatia, così da poter andare incontro alle frontiere dell’altro non da giudici ma con il crisma della com-prensione e della com-passione? La più grande disumanità – come insegna Hannah Arendt ne La banalità del male – è non riuscire o saper pensare dal punto di vista di un altro. La letteratura ci spinge al viaggio più importante, da me all’altro, dalla mia testa… ai piedi dell’altro… dal capire meglio me a sentire meglio l’altro, anche nelle sue fragilità o nella sua diametrale differenza. È l’esodo più importante di tutti.

Viaggio della parola nella parola

La letteratura, inoltre, in quanto scrittura, è soprattutto viaggio della parola nella parola, ovvero la parola che sfida sé stessa per dire il mondo ma ancor di più per ri-crearlo in meglio, a volte anche curandolo e guarendolo. Anche i romanzi distopici o di critica fanno questo. Ma il primato di questa capacità della letteratura spetta in particolare alla poesia, che per immediatezza viaggia a velocità più alte, ma non con minor pregnanza e profondità.

Anzi. La poesia sa trasformare in bellezza anche le falene morte per il gelo improvviso e scricchiolanti come zucchero quando sono calpestate dai piedi, come avviene ne La primavera hitleriana di Montale, o veste di umanità anche i contesti più solenni, come fa Dante quando nel XIV canto del Paradiso fa rimare l’amme (amen) detto dai beati desiderosi di riavere il corpo alla resurrezione della carne con mamme, che loro desiderano finalmente di riabbracciare con quel corpo che non hanno e possono solo bramare al momento perché sempiterne fiamme. E così fa sentire quanto siamo fatti di mancanza, che ci apre sempre e sempre ci sospinge verso l’Alt(r)o.

Esodo nella bellezza

La poesia ingenera l’esodo più importante… quello verso la bellezza. Nel viaggio della vita indica la meta cui tendere. E siccome come insegna Kraus «origine è la meta», nell’indicare la meta indica anche l’origine o meglio il fondamento. «Ciò che resta lo fondano i poeti» cantava il poeta tedesco Hölderlin e Heidegger dava a questa frase spessore metafisico: il poeta vede ciò che è stabile, ciò che resta quando tutto crolla, ciò da cui ripartire quando restano solo le macerie del mondo e della storia, della crisi personale o di una pandemia globale. E lo può fare perché nasce da una ferita di dolore o di bellezza. Richiamando il fondamento e la meta, e lo scarto che ce ne separa, rimette in moto, riapre l’esodo, fa ricominciare – con occhio nuovo, con il balsamo terapeutico della parola – il viaggio della vita. Così si potrà ancora fare letteratura…

Francesco Pacia

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