Cari lettori di Le Grain de Blé,
la redazione del blog saluta questo nuovo anno con un articolo scritto a più mani. La domanda di partenza delle condivisioni è stata: cos’è la povertà evangelica? Perché dovremmo desiderare essere poveri, abbandonarci alla precarietà e sentirla come il mare della Provvidenza di cui non si vede il limite, ma che sappiamo operare per il bene di ciascuno?

Oggi e domani condividiamo con voi quello che è scaturito dal cuore e dalla penna di ognuno, affidando ogni parola e ogni preghiera alla dolce intercessione del Santo Francesco, di cui oggi la Chiesa fa memoria. Buona Lettura.

Poveri wannabe

Nel mare della precarietà

Dopo un anno di intenso e fertile lavoro, mi ritrovo disoccupato. Una condizione che condivido con tanti altri giovani: voler costruire un progetto di vita ma non averne le risorse; attendere, quasi pretendere, una certa dose di sicurezza ed invece nuotare – più o meno abilmente – nel mare della precarietà.

E mentre rifletto, un po’ amareggiato, sulla mia condizione di ‘povera precarietà’, nella quale si assapora sulla pelle il gusto non sempre dolce della vulnerabilità , mi si palesa davanti agli occhi il volto e la figura di Francesco di Assisi ma anche quella di Chiara, loro che ‘da ricchi che erano si erano fatti poveri’ (per parafrasare la Scrittura).

E così la domanda: perché mai hanno scelto la povertà? Una condizione, quella di essere poveri, da cui tutti appena possono – scappano? Sarà mai che sotto questo cumulo di stracci alla vista poco amabili si nasconde un tesoro? E’ un dato significativa ma assai curioso, in tutta la storia della Chiesa dalle origini fino ad oggi, la povertà è stata un pungolo, da alcuni fuggita come la peste da altri abbracciata con gioia. Ma allora sta’ benedetta – maledetta povertà è una grazia o una disgrazia?

Entro, anzi entriamo nella festa del Serafico Padre Francesco con questa provocazione interrogativa, che la sua intercessione fraterna ci aiuti a scoprire questa ‘perla preziosa’ chiamata povertà.

Una gelida carezza

La povertà è come una carezza che ti viene fatta da una mano gelata.

Quel gesto non ti gratifica, non ti dà piacere, anzi, a dire la verità, ti dà quasi fastidio il contatto freddo, istintivamente ti viene da ritrarre il volto e allontanarti. Eppure è una carezza quella che stai ricevendo! Ecco, per me la precarietà ha il tocco di un gesto d’amore che non so riconoscere e perciò, sul principio, la scambio per una sfortuna ingiusta, capitata proprio a me. Invece, guardando in profondità, oltre il velo gelido ma superficiale, riesco a scoprirci un’occasione d’amore regalata proprio a me. Si tratta allora di accogliere e di scegliere questo tempo precario, anziché subirlo passivamente e disperatamente. La sfida paradossale è passare dal dire lamentosa: “Sono una povera precaria”, al dire fiduciosa: “Voglio starci, voglio essere una povera precaria”.

La povertà poi conosce anche un’altra declinazione, quella affettiva. Nella vita capita di dover perdere qualcuno, di dover cambiare strada, di dover lasciar andare: in questi casi vivere la povertà è drammatico, è forse una delle sofferenze più incomprensibili e dure da accettare. Tuttavia, questo doloroso azzeramento, questo divino richiamo a non possedere nessuno e niente mi restituisce una verità immensa e immutabile: io per vivere una vita pienamente amata e felice nella libertà ho bisogno in primis di Dio. E allora così sia: povera wannabe.

La Redazione

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