«Se per recuperare ciò che ho recuperato
ho dovuto perdere prima ciò che ho perso,
se per ottenere ciò che ho ottenuto
ho dovuto sopportare ciò che ho sopportato,
se per essere adesso innamorato
ho dovuto essere ferito,
ritengo giusto aver sofferto ciò che ho sofferto,
ritengo giusto aver pianto ciò che ho pianto.
Perché dopotutto ho constatato
che non si gode bene del goduto
se non dopo averlo patito.
Perché dopotutto ho capito
che ciò che l’albero ha di fiorito
vive di ciò che ha di sotterrato».[61]
Ci sono alcune realtà con cui noi cristiani abbiamo molta difficoltà a riconciliarci, una di queste – forse la più scandalosa – è la sofferenza. Senza girarci intorno ve lo dico: la sofferenza – di per sé – è inevitabile; ben vengano i gruppi di preghiera per le guarigioni; ben vengano tutti i tentativi umani per alleviare, curare e guarire i mali e le sofferenze; ben venga tutto ciò che di buono e vero si possa fare per far vivere questa fastidiosa dimensione ma il dato non viene meno: la sofferenze esiste, fa parte della vita, a volte bussa più forte, a volte sussurra più piano ma è sottofondo continuo.
Spesso mi trovo ad ascoltare persone che si pongono le stesse comuni domande: c’è chi pensa di rintracciare un’assurda colpa spirituale, chi trova responsabili ovunque, chi tira in ballo le potenze demoniache, chi si impegna in rituali quotidiani nell’attesa che qualcosa accada. Tutto normale, nulla di anomalo, tutti vorremmo liberarci del peso della sofferenza, tutti vorremmo essere liberi e leggeri come fanciulli, io – per primo – mi pongo le medesime domande e metto in atto le medesime prassi.
Ma c’è un ‘ma’, la sofferenza, oltre ad essere una gran rottura di scatole, è un’occasione, un’opportunità; fin a quando non iniziamo a ragionare in questi termini, la ‘sofferenza’ sarà solamente una tortura. In quanto sfugge dalle nostre stesse possibilità, dalle nostre scelte, il primo passo da compiere è accettarla anzi dico di più accoglierla. Vi scandalizza questo? Forse sì, scandalizzava anche me all’inizio, è stata dura vedere la ‘vita’ in prospettiva e non come un’istantanea.
“Tutto e subito” o “la fatica”: la sofferenza di un cammino
Il giorno più bello è stato quando – leggendo quel sonetto sopramenzionato – ho compreso come la vita è veramente un ‘cammino’, che non è sempre uguale, sempre diritto ma che ci conduce verso una meta, una vetta. Per giungere a questa meta occorre passare per delle ‘valli oscure’, degli ‘inferni’, delle ‘tribolazioni’.
Una volta posta in essere questa consapevolezza, la sofferenza non verrà meno ma emergerà il senso, il camminare non sarà meno faticoso ma sicuramente meno confuso, tutto acquisterà un gusto, un sapore diverso.
Qual è il senso? Quale è la direzione? Questo occorre domandarlo – in preghiera – al Dio Trino ed Unico. A Lui spettano le risposte, a noi le domande, sperando che siano quelle giuste.
Paride
Per leggere l’articolo precedente della nostra rubrica “Scribi del Mistero”, ecco il link: ci-abituiamo-al-buio.